Salute mentale: è solo una questione di statistiche?

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Arte folgorante

“La sanità di mente non dipende dalle statistiche”.

L’anonimato di una frase del genere, ben evidente sul muro di una stradina di un remoto paesino qualunque, può assumere (se la si comprende a fondo) un importante significato.

Attraverso ogni giorno quella strada e tutte le volte che mi ritrovo a leggere quella scritta, non manca mai di spuntare un sorrisetto sulle mie labbra. Il motivo? L’idea che qualcuno a me ignoto abbia voluto evidenziare una questione così significativa, soprattutto in un periodo storico in cui gli eventi catastrofici e imprevedibili ci espongono continuamente ad uno stress psicologico senza precedenti. 

Le vecchie generazioni mi perdonino!

Chiunque abbia audacemente e sapientemente “imbrattato” (per così dire: d’altronde la street art è in ogni caso arte) il muro con un graffito d’impatto così diretto probabilmente avrà sentito, in quell’esatto momento, la necessità di comunicare un proprio ideale, una personale e significativa interpretazione in merito all’argomento. E cioè che il benessere psichico molto spesso scinde dalla mera quantificazione in percentuale e va ben oltre la fredda, seppur spesso colorata (come se un po’ di colore in un diagramma rendesse più marcato il problema) rappresentazione grafica.

Infatti, la profondità di una tematica così delicata è difficile che venga compresa attraverso calcoli sistemici facilmente consultabili con un click e disponibili ovunque su internet: forse ciò che vuole comunicare il nostro sconosciuto “artista” è esattamente questo. 

Guardiamoci intorno: il web (che sia benedetto! O forse no) ci propone una marea di informazioni, di dati sulla salute mentale talmente vasta che ci si potrebbe persino annegare (io stessa nel consultarli ho dimenticato di indossare un salvagente!). 

Eppure, se con sensibilità ci approcciamo al tema possiamo renderci conto che sì, è vero che i numeri lasciano sgomenti, ma si tratta soltanto di cifre spesso non aggiornate ai tempi più recenti né così tanto inclusive. Siamo sinceri: molte stime non tengono conto di alcuni fattori determinanti e imprescindibili, quali l’età (tanto che alcune fasce vengono persino escluse, quasi fossero esentate dai problemi!), lo stile di vita, le aspettative sul futuro o l’ambiente circostante. 

Attenzione però! Qui la mia intenzione non è certo quella di denigrare la ricerca e gli studi in merito all’argomento. Il mio intento, al contrario, è quello di portare alla luce una questione più urgente che riguarda la difficoltà sia di interfacciarsi con il tema della salute mentale, sia quella effettivamente di “fronteggiarla” in modo adeguato.

Ma procediamo con ordine.


Se non vedo, non credo!

Molto spesso per credere realmente che esista una problematica si ha bisogno di esaminare con i propri occhi le prove che essa mette a disposizione. Siamo (ahimè direi!) esseri troppo razionali: senza nulla in mano le cose del mondo ci appaiono fantasticherie e fallaci illusioni e una tematica complessa come la salute mentale rischia di diventare una di quelle. 

Ciò di cui si ha più bisogno per evitare che ciò accada è credere in ciò che si vede e si legge (siamo tutti un po’ dei Tommasi del caso). E a tal proposito i numeri rappresentano una straordinaria àncora di salvezza: sebbene la sanità mentale non dipenda effettivamente dalle statistiche, a detta del nostro artista, le stime ci permettono di analizzare a tutto campo il fenomeno. 

Tenendo conto degli ultimi studi in nostro possesso a livello globale (in questo caso si consideri il rapporto Unicef 2021 sulle condizioni dell’infanzia nel mondo) sappiamo che quasi 46.000 adolescenti muoiono a causa di suicidio ogni anno, più di uno ogni 11 minuti. 

Questo rappresenta una fra le prime cinque cause di morte per la loro fascia d’età. In Europa occidentale diventa la seconda causa di morte fra gli adolescenti fra i 15 e i 19 anni, dopo gli incidenti stradali. Un dato che lascia sbigottiti! 

Un giovane su 5 tra i 15 e i 24 anni- continua il rapporto- dichiara di sentirsi spesso depresso o di avere poco interesse nello svolgimento di attività. E nel caso dei più giovanissimi è quasi inutile sottolineare come l’impatto del Covid-19 sulla socialità abbia sicuramente inferto loro un gravissimo danno. A questo va aggiunto, inoltre, che l’interruzione della routine, dell’istruzione, delle attività ricreative a seguito dei numerosi lockdown, ha reso molti giovani spaventati, arrabbiati e preoccupati per il loro futuro.

Henrietta Fore, direttrice generale dell’Unicef afferma: “L’impatto è significativo, ed è solo la punta dell’iceberg […] I governi stanno investendo troppo poco per affrontare questi bisogni fondamentali. Non viene data abbastanza importanza alla relazione tra la salute mentale e le conseguenze future sulla vita“. 

Secondo il rapporto sopracitato, a livello mondiale, viene destinato agli interventi per la salute mentale circa il 2% dei fondi governativi per la sanità. 

Questa è esattamente la prima grave questione che vorrei rimarcare: come mai i governi, le istituzioni si affacciano alla tematica con “elegante” disimpegno? Eppure le statistiche parlano chiaro: l’ansia e la depressione rappresentano il 40% dei disturbi mentali diagnosticati in ragazzi e ragazze tra i 10 e i 19 anni. Una percentuale a dir poco impressionante che interessa principalmente paesi quali Medio Oriente, Nord Africa, Nord America ed Europa Occidentale.


Assurdità made in Italy

Tralasciamo per un momento la questione globale, aprendo un focus sulla situazione in Italia.

In primis, le numerose query su google mi hanno lasciato un po’ perplessa: è sconcertante notare che gli ultimi dati Istat disponibili in rete risalgono (si pensi) al “remotissimo” 2018. 

Mi venga passato quest’ultimo termine data la quantità considerevole di eventi e “apocalittiche” situazioni che hanno interessato gli ultimi anni, tanto da farmi persino immaginare lontano un periodo in fin dei conti più che recente. 

Lo stesso Sole 24 Ore ammonisce sul fatto che mancano dati attuali, per intenderci post-pandemia, che spiegano dettagliatamente qual è il quadro sulla salute mentale in territorio italiano. 

Esaminando, tuttavia, alcuni degli studi in nostro possesso tratti dal report “La salute mentale in Italia: cosa ci dicono i dati dell’Istat” sappiamo che: 

Sempre l’Istat, in un altro report pubblicato nel luglio 2018 dal titolo “La salute mentale nelle varie fasi della vita”, mostra come il suicidio resta comunque un’importante causa di mortalità tra i più giovani. Con un tasso di 4,3 decessi per 100mila residenti, i suicidi rappresentano quasi il 12% dei decessi tra i 20 e i 34 anni (oltre 450 decessi). 

La gravità della problematica è evidente, soprattutto se si tiene conto del fatto che le stime riportate risalgono ormai a qualche anno fa. 

Infatti, non esistono dati che riportano l’impatto che sta avendo la pandemia sulla nostra vita. Azzarderei col pensare che le percentuali siano oltremodo peggiorate e che i fenomeni depressivi abbiano raggiunto valori altissimi. 

In ogni caso, resterò allerta nel caso in cui dovesse esserci qualche aggiornamento. 

Ah! Nel frattempo il “bonus psicologo” è in rampa di lancio. 

Attenzione però: se superi il reddito dei 50 mila euro sei escluso.

D’altronde ci sono più poveri che ricchi, perché cercare di sopperire alle esigenze economiche del popolo se esso può beneficiare di un qualsivoglia bonus? Ce ne sono così tanti in giro. Non si può mica avere tutto! Inoltre, devi portare una 30 di vita, essere alto circa 2 metri e mezzo, essere cittadino italiano (prima gli italiani! Non era così? Ah! se hai bisogno di un’arma perché no, ti aiutiamo noi) e ovviamente dimostrare di essere davvero, ma davvero bisognoso. Altrimenti beh, 12 sedute (le prime) puoi pagartele anche da solo. 

La salute mentale, caro anonimo imbrattatore, hai ragione non è questione di statistiche.

Direi più di requisiti da soddisfare. 

Arianna Modafferi


FONTI 

https://www.unicef.it/media/salute-mentale-nel-mondo-piu-di-1-adolescente-su-7-disturbi-mentali/

https://www.ansa.it/canale_saluteebenessere/notizie/medicina/2021/10/05/un-adolescente-su-7-ha-un-disturbo-mentale-_30dd13e1-077e-405a-94ff-bd4bab7208d7.html

https://www.istat.it/it/files/2018/07/Report_Salute_mentale.pdf

https://www.istat.it/it/files/2015/10/Salute-mentale_Giorgio-Alleva_2017.pdf

https://www.istat.it/it/files/2018/07/Report_Salute_mentale.pdf

Obiettivo 16: promuovere la pace, la giustizia e la cooperazione tra le nazioni

Panoramica generale: Goal #16

Partiamo dal principio: questo obiettivo dell’agenda 2030 ha come protagoniste principali delle tematiche di rilevante importanza internazionale. 
Si parte dalla proposta di riduzione “in ogni dove” di tutte le forme di violenza e conseguentemente i tassi di mortalità ad essa connessa, per arrivare al mirabolante obiettivo della creazione di istituzioni nazionali efficaci, responsabili e trasparenti.
Posta in questa maniera la proposta #16 dell’Agenda si mostra agli occhi di chi legge, di chi poco si addentra nella politica internazionale, come una favoletta dalle sfaccettature giocose, raccontata per cercare di mettere tutti d’accordo del fatto che possa esistere un finale da sogno. Eppure in fondo a questa favola, deve esserci necessariamente una morale. 
Il fatto stesso di proporre, come ulteriore obiettivo da raggiungere, un principio fondamentale come quello che riguarda in primo piano la creazione di un sistema sociale inclusivo, fa riflettere molto su quanto ancora oggi, nel XXI secolo, esistano realtà nelle quali esso sembra più una fantomatica utopia, che una tangibile verità.
La trattazione del Goal #16, ora più che mai, data la drammaticità degli eventi che stanno riguardando il Medio Oriente, appare una straordinaria, sebbene quasi ironica, coincidenza. 

Ma procediamo per gradi.

Il Goal 16 dell’Agenda 2030 designa, come futuri ottimi propositi:

  • la creazione di società pacifiche e pacificanti;
  • la riduzione dei flussi finanziari e la vendita di armi illecite;
  • l’eliminazione di tutti i tipi di violenza, abuso e sfruttamento contro i minori;
  • la realizzazione di forme istituzionali che risultino responsabili (come se dovessero raggiungere la maggiore età) ed efficaci a tutti i livelli;
  • la cooperazione internazionale in merito alla prevenzione del terrorismo e del crimine organizzato;
  • una più ampia fruizione dei servizi connessi al settore giuridico e pertanto l’eliminazione di tutte le forme di corruttela e concussione.

È necessario, tuttavia, in merito a quest’ultimo punto, constatare che tra le istituzioni più affette da questo gravissimo virus, quale appunto la corruzione, vi sono ahimè proprio la magistratura, quella che dovrebbe essere la garante d’eccellenza della giustizia e della parità sociale, e la polizia, anch’essa investita dal gravoso compito di assicurare la sicurezza e l’armonia collettiva. Secondo i dati offerti dal Centro Regionale di Informazioni delle Nazioni Unite, corruzione, concussione, furto ed evasione fiscale costano ai paesi in via di sviluppo ben 1,26 mila miliardi di dollari l’anno. 
Cifra che se fosse utilizzata in maniera differente potrebbe risollevare per ben sei anni, coloro che vivono con meno di 1,25 dollari al giorno!
Ma sorvoliamo questa ardua questione, per inoltrarci all’interno di un’altra, non meno complessa, tematica: l’obiettivo 16 propone come già precedentemente citato, il principio fondamentale riguardante la cessazione di tutte le forme di violenza, di abuso, di sfruttamento, entro un’ottica che inquadra in primo piano gli atti di maltrattamento sui minori. 

Focalizziamoci su una specifica forma di violenza, quella minorile, per poi addentrarci nella gravissima situazione che sta riguardando in primo piano l’oriente, ma che in un certo qual modo tocca anche il resto del mondo occidentale.  

Focus sullo sfruttamento minorile 

Secondo un rapporto di Save the Children sono ben 152 milioni di minori, di età compresa tra i 5 e i 17 anni, le vittime di sfruttamento lavorativo, di cui quasi la metà, costituita da circa 73 milioni di bambini, sono costretti a svolgere lavori duri e pericolosi che ne mettono a rischio la salute fisica e psicologica e la sicurezza personale .

Sebbene questo obiettivo rientri tra quelli principali proposti dall’Agenda 2030, ancora oggi, la situazione sembra essere ben lontana dal totale raggiungimento. In molti paesi in via di sviluppo, quali Africa, Nigeria, Ciad, Mali, Guinea Bissau, si regista un tasso di ben il 50% di coinvolgimento lavorativo, di ragazzini che non superano i 18 anni di età. 
Focalizzando l’attenzione sui paesi colpiti dai conflitti armati, questa percentuale, già drammaticamente alta, raggiunge un tasso elevatissimo: il 77% dei bambini che vivono in queste regioni martoriate dalla guerra, subiscono condizioni ancora peggiori di sfruttamento lavorativo, al quale si aggiunge anche l’atroce fattore della schiavitù sessuale. 
Non è dunque un caso, il fatto che l’Agenda si proponga come punto di arrivo la cessazione di questo tipo di maltrattamenti, sebbene si tratti di una strada molto articolata e a suo modo complessa da percorrere.

Cessazione di ogni forma di violenza: e il Medio Oriente?

Riallacciandomi al punto numero 16.2 del Goal, nel quale si fa esplicito riferimento alla cessazione di ogni forma di violenza, mi preme focalizzarmi su una questione che sembra in realtà capovolgere in maniera irreversibile questi buoni propositi. 
Appare quasi d’obbligo soffermarsi, infatti, a mio avviso, su di un argomento che in questi ultimi giorni sta scuotendo il panorama orientale e non solo: le tensioni crescenti tra le autorità palestinesi e quelle israeliane. 
Sebbene non sia contesto adatto per una trattazione approfondita della tematica, è doveroso fare un breve riferimento a tale situazione, che sembra annullare la prospettiva di una definitiva attuazione di una delle proposte dell’Agenda. 
Prendendo atto del fatto che la questione politica, che riguarda da un lato la Palestina del governatore Maḥmūd ʿAbbās e dall’altro l’Israele guidato da Benjamin Netanyahu, abbia origini recondite, la lotta civile tra le due parti si spinge ben oltre il puro scopo di danneggiamento politico e militare. Gli effetti e le conseguenze di queste offese reciproche, infatti, interessano prevalentemente la popolazione locale. 
Quella riduzione della violenza che l’Agenda si propone di attuare in “ogni dove”, riguarda esattamente questo tipo di ingiustificabile sopraffazione politica, nei confronti dei cittadini delle singole parti. 
Donne, uomini, anziani, ma soprattutto bambini. Sono queste le vittime delle atrocità di questa straziante guerra. Circa 60 bambini, al di sotto dei 18 anni, sono stati uccisi in pochissimi giorni dalla ferocia dei governi nemici. E i numeri sono inevitabilmente destinati a crescere. 
In questo caso, ci si aspetta che il Goal 16 venga preso in considerazione in tutti i suoi aspetti, dalla cooperazione internazionale, fino al definitivo “Cessate la violenza”, che risuona nelle menti dei cittadini palestinesi ed israeliani ed oramai anche nel resto della popolazione mondiale. 

Altrimenti questa sensazionale favola, chiamata Agenda 2030, a quali bambini verrà raccontata?

Fonti

L’agricoltura industriale e il suo impatto sull’ambiente

L’aumento della popolazione, la richiesta sempre crescente di derrate alimentari, ha portato inevitabilmente ad una rapida riorganizzazione di alcune infrastrutture, come quella agricola, che si è dovuta adattare conseguentemente alla nuova compagine sociale. Ad una domanda sempre maggiore del mercato, il settore agricolo ha dovuto “reinventarsi” soprattutto per quanto riguarda l’adozione di sistemi di produzione più rapidi ed efficaci. Vale a dire sistemi che prevedano l’utilizzo di fertilizzanti sintetici all’azoto che mirano ad incrementare la crescita delle piante.
L’azoto è un componente essenziale per la vita sulla terra: le piante assorbono azoto dal terreno e gli animali a loro volta si nutrono delle piante. Quando muoiono e si decompongono, l’azoto ritorna al suolo e viene trasformato dai batteri. Questa ciclicità, che prende il nome di “Ciclo dell’azoto”, può tuttavia essere compromessa, se si ricorre ad espedienti nocivi, come appunto i già citati fertilizzanti sintetici, o a metodi di coltivazione che non rispettano la naturale ricomposizione del terreno, in seguito al tradizionale ciclo di rotazione periodica delle culture.
L’agricoltura industriale moderna ha sconvolto questo antico equilibrio ecologico, già a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, quando negli USA si è cercato di incentivare al massimo la produzione di cibo, con l’obiettivo di mantenere prezzi bassi e incoraggiare le esportazioni.
Oggi molte attività agricole potrebbero ritrovarsi con un deficit economico enorme se non fosse per il sostegno dei contribuenti, che favoriscono l’attuazione di pratiche altamente nocive e particolarmente dispendiose. 
Per produrre una sola caloria di cibo addirittura il settore agricolo consuma circa 10 kcal di energia ricavata dai carburanti fossili.
Ciò che però fu quasi totalmente ignorato, negli Stati Uniti e poi nel resto del mondo, è il fatto che l’utilizzo dei fertilizzanti all’azoto stimola non soltanto la crescita delle piante, ma conseguentemente anche quella dei batteri che vivono nel suolo e che sono “affamati” di carbonio. Ecco perché la distribuzione rapida di fertilizzante porta ad una riproduzione ancor più spedita di questi batteri che assorbono senza freno il carbonio, lasciandone il terreno privo.

I fertilizzanti all’azoto finiscono poi nei corsi d’acqua che, riempiti di nutrienti, permettono la crescita di alghe nelle aree in cui sfociano. Quando le alghe muoiono, la loro decomposizione sottrae l’ossigeno all’acqua, provocando danni enormi alla fauna acquatica e dando vita a quelle che vengono definite “zone morte”.
Al Gore paragona l’attuale utilizzo dei fertilizzanti sintetici all’azoto al patto stipulato da Faust col diavolo. Ed effettivamente non ha tutti i torti! 
Addirittura alcune aree del globo presentano terreni talmente degradati che è necessaria non una diminuzione, ma un aumento della fertilizzazione.

Il settore agricolo nello specifico del continente Europeo

Entrando nel dettaglio della zona europea, secondo alcuni studi condotti dall’Agenzia europea dell’ambiente, l’attività agricola risulta meno interessante come attività economica e soltanto il 39% del suolo del continente risulta effettivamente adibito ad uso agricolo.
Il settore utilizza gran parte delle risorse naturali e le conseguenze di uno sfruttamento così massiccio sono inevitabili:

  • Il 94% delle emissioni di ammoniaca in Europa, sono derivate direttamente dall’agricoltura;
  • Mediante l’irrigazione, l’agricoltura esercita forti pressioni sulle risorse idriche rinnovabili, tanto che circa il 50% dell’acqua utilizzata in Europa è destinata al settore;
  • L’agricoltura è una delle principali fonti di nitrati nelle acque superficiali o sotterranee;

Accanto a questi fattori di rischio ambientali, vanno ad aggiungersi anche altri cambiamenti di tendenza soprattutto relativi al consumo, in crescita, della carne rossa. In media per produrre mezzo chilo di carne, servono oltre 3 chili di proteine vegetali e quasi 22,8 metri cubi d’acqua.

Il consumo pro capite della carne è aumentato di circa il 50% negli ultimi 50 anni, soprattutto nei paesi sviluppati. 
Il tutto, ovviamente, accompagnato da un elevatissimo consumo di energia, proveniente da combustibile fossile, necessaria per far muovere l’intera macchina di produzione alimentare e da una conseguente impennata delle emissioni di CO2.Gli impatti legati, dunque, alle emissioni provenienti dagli impianti di allevamento industriali, insieme a quelli strettamente connessi al settore agricolo, hanno peggiorato in maniera irrimediabile l’ecosistema globale.

La scelta dell’Europa

Tuttavia, nonostante gli impatti devastanti all’ambiente, causati prevalentemente dal settore agricolo, l’Unione Europea, ha adottato alcune misure di contenimento dei rischi. 
Una di queste prende il nome di Direttiva Nitrati, firmata nel 1991 dagli Stati membri dell’Unione mira a proteggere la qualità delle acque prevenendo l’inquinamento di quelle sotterranee e di quelle superficiali provocato dai nitrati utilizzati in agricoltura. 
Ogni quattro anni, la Commissione europea redige una relazione sull’attuazione della direttiva e delle buone pratiche agricole da attuare nel rispettivo territorio nazionale. 
La direttiva, inoltre, consente agli Stati di derogare al limite di 170 kg di azoto per ettaro all’anno soltanto in condizioni specifiche, come stagioni di crescita prolungate o elevate precipitazioni. 
La misura adottata, sebbene rappresenti un piccolo segnale di risposta al cambiamento climatico, ha mostrato fin da subito la volontà da parte degli Stati membri di migliorare la qualità del settore agricolo industriale. 
Nell’Unione Europea migliora la qualità delle acque e cresce l’efficacia dei programmi d’azione. Nonostante la riduzione del numero di capi d’allevamento e nell’uso di fertilizzanti fornisca un importante contributo in termini di riduzione di pressione ambientale, le attività agricole costituiscono ancora oggi un’importante fonte di azoto per le acque superficiali.
Indubbiamente la direttiva rappresenta soltanto un piccolo tassello nella lotta al cambiamento climatico che, si spera, entro il più breve tempo possibile, possa concludersi in maniera vittoriosa.

Fonti

Bibliografia

Al Gore, La scelta. Come possiamo risolvere la crisi climatica, Rizzoli, 2009

Festa dei lavoratori: il lavoro come prima risorsa

Festa dei lavoratori: contesto storico

Il 1° maggio è, ufficialmente a partire dal 1947, considerata Festa del lavoro e dei lavoratori in moltissimi paesi del mondo. 
In realtà la storia di questa importantissima ricorrenza, risale ad un’epoca ancor più remota. Siamo a Chicago, negli Stati Uniti, il 1°maggio del 1886. In quel giorno era stato indetto uno sciopero generale in tutto il paese, attraverso il quale gli operai rivendicavano migliori e più umane condizioni di lavoro. Non era, infatti, insolito che a fine ‘800 gli orari di lavoro giungessero addirittura ad un totale di 16 ore al giorno e che la sicurezza sul lavoro fosse quasi una “leggenda metropolitana”. 
Tre anni dopo quella prima e significativa imposizione nei confronti di un sistema di estremo sfruttamento lavorativo, nel luglio del 1889, si decise, al congresso della “Seconda Internazionale”, l’organizzazione dei partiti laburisti e socialisti europei, di istituire una grande manifestazione di portata globale, che sarebbe stata celebrata, da qui in avanti, indicativamente proprio il 1° maggio. 
In Italia, il ventennio fascista modifica questa annuale ricorrenza, anticipando la data di celebrazione al 21 aprile, data del cosiddetto Natale di Roma, snaturando così l’idea originaria di celebrazione del lavoratore in quanto figura cardine del progresso civile.
L’istituzionalizzazione della Festa del lavoro, avvenuta in Italia soltanto sessant’anni dopo, nel 1947, ha sottolineato la volontà di garantire un miglioramento delle condizioni lavorative su tutto il territorio nazionale.

Misure di prevenzione sul lavoro: panorama italiano oggi

Le regole riguardo la sicurezza sul lavoro e gli obblighi per lavoratori e aziende sono disciplinate dal Testo Unico, ovvero il Decreto Legislativo 81/2008. La legge ha avuto come obiettivo quello di stabilire regole, procedure e misure preventive da adottare per rendere più sicuri i luoghi di lavoro, quali essi siano. L’obiettivo è quello di evitare o comunque ridurre al minimo l’esposizione dei lavoratori a rischi legati all’attività lavorativa per evitare infortuni o incidenti o, peggio, contrarre una malattia professionale.

Prima figura sulla quale ricade questa responsabilità di protezione del dipendente, è il datore di lavoro, che viene investito dell’obbligo di garantire la sicurezza, attraverso l’attuazione degli adempimenti stabiliti dal Testo Unico, tra i quali spiccano nella sezione Valutazione dei Rischi:

  • Individuazione di mansioni che espongono il lavoratore ad eventuali rischi che richiedono una particolare esperienza e formazione;
  • L’attuazione delle misure ritenute opportune per garantire il miglioramento nel corso del tempo dei livelli di sicurezza;
  • Una relazione sulla valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute durante l’intera attività lavorativa

Covid: l’impatto sul mondo del lavoro

L’ANPAL (Agenzia Nazionale Politiche Attive Lavoro), ha pubblicato, per l’anno 2020 un Rapporto annuale sul mercato del lavoro, nel quale viene riportata la perdita di occupazione durante il periodo febbraio-giugno 2020: ben 542 mila occupati in meno rispetto allo stesso periodo in relazione all’anno precedente. 
Le flessioni si sono concentrate soprattutto tra i dipendenti a termine e, in misura inferiore, tra gli indipendenti, a fronte di un incremento dello stock di dipendenti a tempo indeterminato.
In particolare la gravissima crisi provocata dalla pandemia, ha interessato soprattutto le donne, i giovani, e i dipendenti stranieri, per i quali si registra un elevato tasso di disoccupazione. Circa il 6,4% in più rispetto all’anno precedente ha riguardato la perdita di occupazione del settore femminile. 
Non si tratta soltanto di una perdita dal punto di vista strettamente lavorativo, è soprattutto una disfatta sul piano sociale. 

La festa dei lavoratori, in un anno critico come quello in cui ci ritroviamo a vivere, sembrerebbe essere un paradossale ossimoro, per chi, invece, il lavoro non ce l’ha più e per chi ancora lotta per riuscire a trovarlo. 

Buon primo maggio a tutti i lavoratori che lottano contro lo sfruttamento. 
Buon primo maggio a chi lavora per necessità e non per passione.
Buon primo maggio a tutte le donne lavoratrici, a tutti i giovani sognatori e a chi di cassetti pieni di sogni ne ha in abbondanza.

Per un’auspicabile ripresa.