1+1 = MONDO

Durante questi mesi non abbiamo fatto che altro che portarvi con noi nell’approfondimento di temi toccati dall’Agenda 2030.
Come per tutti i percorsi, arriva l’ultimo capitolo, che per noi non significa la fine di un viaggio, ma la conclusione di una prima tappa, alla quale siamo giunti insieme e, ci auguriamo, più consapevoli.
La collaborazione è da sempre fondamentale all’interno di un gruppo, in questo caso di una redazione, e in un periodo storico come quello che stiamo vivendo è, probabilmente, stata ancora più necessaria per la nascita, e riuscita, di questo progetto.
Nonostante le distanze, la collaborazione è stata punto fermo, cardine, nella costruzione di piccoli mattoni di quella che è, e sarà, SecopLAB.

Ed è proprio così, che giungono a conclusione gli obiettivi dell’Agenda 2030.

L’SDG 17 per uno sviluppo sostenibile afferma di dover rafforzare i mezzi di attuazione e rinnovare il partenariato mondiale per lo sviluppo sostenibile, che significa partenariati tra governi e società, collaborazioni inclusive per il raggiungimento di obiettivi condivisi e necessari per l’intero Pianeta.
Ciascun Paese si dovrà impegnare nel reindirizzare i propri fondi, investendo, soprattutto, nei paesi in via di sviluppo, nel settore energetico, in infrastrutture e trasporti, informazione e comunicazione.
Aspirare ad un mondo totalmente equo resta probabilmente utopico, ma la richiesta che quindi viene fatta è di muoversi, quanto più possibile, a sostegno di questa causa a livello locale, nazionale ed internazionale, mettendo al primo posto chi si trova in difficoltà, sensibilizzando ogni singolo cittadino del Mondo e sfruttando l’impegno di tutti per raggiungere un nuovo equilibrio.

Prendendo in considerazione alcuni dati:

  • I fondi per l’assistenza allo sviluppo nel 2014 hanno raggiunto i 135,2 miliardi di dollari, il livello più alto;
  • il 79% delle importazioni da Paesi in via di sviluppo entra nei confini dei paesi sviluppati esenti da dazi;
  • nei Paesi in via di sviluppo, il peso del debito resta a circa il 3% delle entrate legate alle esportazioni;
  • in Africa, il numero degli utenti di Internet e quasi duplicato in quattro anni;
  • Il 30% dei giovani nel mondo sono “nativi digitali” attivi da almeno cinque anni;
  • tuttavia, sono almeno 4 miliardi coloro a non poter usufruire di questo servizio: il 90% risiede in regioni dei Paesi in via di sviluppo

Ma quindi, cosa viene richiesto per raggiungere nuovi traguardi?

Finanza

In ambito finanziario si richiede di aiutare paesi meno agiati ad aumentare la loro capacità fiscale interna, mobilitando risorse economiche, e permettendo di sostenere debiti a lungo termine attraverso finanziamenti, riduzioni e ristrutturazioni del debito, alleggerendone, così, il peso.
Inoltre, lo 0.7% del reddito nazionale lordo di paesi industrializzati dovrà essere destinato in aiuti pubblici per lo sviluppo (APS/RNL), così come i fornitori mondiali di aiuto pubblico, saranno sollecitati a fornire almeno lo 0.20% del loro reddito in APS/RNL a Paesi meno sviluppati.
Il rapporto tra entrate fiscali e Pil è, nel 2018, il 31% a livello globale, con Europa e America del Nord in testa per capacità fiscale interna e riscossione, da parte della Amministrazioni Pubbliche, delle entrate.

In Italia, nel 2019 le entrate delle AP si sono riconosciute nel 42,4% del PIL, una quota in costante crescita anche nell’ultimo anno.Nonostante questo, l’ASP destinato a paesi bisognosi, anche se in aumento, non è abbastanza per i target 2030 previsti: l’Italia si colloca al di sotto del contributo medio del DAC (Comitato per l’Aiuto allo sviluppo).

Tecnologia

Nel 2021, così come per gli anni precedenti, la Tecnologia si conferma risorsa essenziale per garantire un corretto sviluppo. Un vero e proprio diritto umano.
Per questo motivo, l’obiettivo da raggiungere è riuscire a promuovere crescita, scambio e diffusione di tecnologie in tutti quei paesi che al momento si trovano un passo, ma anche due, indietro rispetto a “noi”. 
Ma non solo.
Queste tecnologie, infatti, dovranno agire nel rispetto dell’ambiente e a condizioni favorevoli per il paese che ne usufruirà, rafforzando la cooperazione internazionale e favorendo l’accesso a scoperte scientifiche, innovazioni, permettendo una miglior condivisione di conoscenze, grazie a modalità stabilite e concordate tra i meccanismi già esistenti come le Nazioni Unite.
La trasformazione digitale è alla base dell’evoluzione di un paese, che sia economica o sociale, strumento di informazione, conoscenza o inclusione, deve essere garantita.
Nonostante il rapido progresso degli ultimi anni, è quasi paradossale pensare che solo una percentuale della popolazione riesca ad accedervi.
Possiamo considerare l’Italia un paese abbastanza al “passo con i tempi”: nel 2019 circa il 74,7% delle famiglie disponeva di una connessione a banda larga, così come molte imprese hanno, nello stesso anno, digitalizzato i propri sistemi di gestione.L’ultimo periodo è risultato, però, una fase di stazionamento, con un rallentamento nello sviluppo, ma soprattutto dove ancora si è parlato di divari territoriali, con evidenti dati contrastanti tra settentrione e meridione, ovviamente a svantaggio di quest’ultimo.

Che questi obiettivi siano o meno raggiunti entro il 2030, è ancora difficile da dirsi, nonostante i ritardi siano già evidenti, ma che sia 2030 o 2040 è evidente che abbiamo bisogno di raggiungerli.

Non esiste Futuro se qualcuno viene lasciate indietro.

Non esiste Evoluzione se l’uno continuerà a prevalere sull’altro.

Fonti

Obiettivo 16: promuovere la pace, la giustizia e la cooperazione tra le nazioni

Panoramica generale: Goal #16

Partiamo dal principio: questo obiettivo dell’agenda 2030 ha come protagoniste principali delle tematiche di rilevante importanza internazionale. 
Si parte dalla proposta di riduzione “in ogni dove” di tutte le forme di violenza e conseguentemente i tassi di mortalità ad essa connessa, per arrivare al mirabolante obiettivo della creazione di istituzioni nazionali efficaci, responsabili e trasparenti.
Posta in questa maniera la proposta #16 dell’Agenda si mostra agli occhi di chi legge, di chi poco si addentra nella politica internazionale, come una favoletta dalle sfaccettature giocose, raccontata per cercare di mettere tutti d’accordo del fatto che possa esistere un finale da sogno. Eppure in fondo a questa favola, deve esserci necessariamente una morale. 
Il fatto stesso di proporre, come ulteriore obiettivo da raggiungere, un principio fondamentale come quello che riguarda in primo piano la creazione di un sistema sociale inclusivo, fa riflettere molto su quanto ancora oggi, nel XXI secolo, esistano realtà nelle quali esso sembra più una fantomatica utopia, che una tangibile verità.
La trattazione del Goal #16, ora più che mai, data la drammaticità degli eventi che stanno riguardando il Medio Oriente, appare una straordinaria, sebbene quasi ironica, coincidenza. 

Ma procediamo per gradi.

Il Goal 16 dell’Agenda 2030 designa, come futuri ottimi propositi:

  • la creazione di società pacifiche e pacificanti;
  • la riduzione dei flussi finanziari e la vendita di armi illecite;
  • l’eliminazione di tutti i tipi di violenza, abuso e sfruttamento contro i minori;
  • la realizzazione di forme istituzionali che risultino responsabili (come se dovessero raggiungere la maggiore età) ed efficaci a tutti i livelli;
  • la cooperazione internazionale in merito alla prevenzione del terrorismo e del crimine organizzato;
  • una più ampia fruizione dei servizi connessi al settore giuridico e pertanto l’eliminazione di tutte le forme di corruttela e concussione.

È necessario, tuttavia, in merito a quest’ultimo punto, constatare che tra le istituzioni più affette da questo gravissimo virus, quale appunto la corruzione, vi sono ahimè proprio la magistratura, quella che dovrebbe essere la garante d’eccellenza della giustizia e della parità sociale, e la polizia, anch’essa investita dal gravoso compito di assicurare la sicurezza e l’armonia collettiva. Secondo i dati offerti dal Centro Regionale di Informazioni delle Nazioni Unite, corruzione, concussione, furto ed evasione fiscale costano ai paesi in via di sviluppo ben 1,26 mila miliardi di dollari l’anno. 
Cifra che se fosse utilizzata in maniera differente potrebbe risollevare per ben sei anni, coloro che vivono con meno di 1,25 dollari al giorno!
Ma sorvoliamo questa ardua questione, per inoltrarci all’interno di un’altra, non meno complessa, tematica: l’obiettivo 16 propone come già precedentemente citato, il principio fondamentale riguardante la cessazione di tutte le forme di violenza, di abuso, di sfruttamento, entro un’ottica che inquadra in primo piano gli atti di maltrattamento sui minori. 

Focalizziamoci su una specifica forma di violenza, quella minorile, per poi addentrarci nella gravissima situazione che sta riguardando in primo piano l’oriente, ma che in un certo qual modo tocca anche il resto del mondo occidentale.  

Focus sullo sfruttamento minorile 

Secondo un rapporto di Save the Children sono ben 152 milioni di minori, di età compresa tra i 5 e i 17 anni, le vittime di sfruttamento lavorativo, di cui quasi la metà, costituita da circa 73 milioni di bambini, sono costretti a svolgere lavori duri e pericolosi che ne mettono a rischio la salute fisica e psicologica e la sicurezza personale .

Sebbene questo obiettivo rientri tra quelli principali proposti dall’Agenda 2030, ancora oggi, la situazione sembra essere ben lontana dal totale raggiungimento. In molti paesi in via di sviluppo, quali Africa, Nigeria, Ciad, Mali, Guinea Bissau, si regista un tasso di ben il 50% di coinvolgimento lavorativo, di ragazzini che non superano i 18 anni di età. 
Focalizzando l’attenzione sui paesi colpiti dai conflitti armati, questa percentuale, già drammaticamente alta, raggiunge un tasso elevatissimo: il 77% dei bambini che vivono in queste regioni martoriate dalla guerra, subiscono condizioni ancora peggiori di sfruttamento lavorativo, al quale si aggiunge anche l’atroce fattore della schiavitù sessuale. 
Non è dunque un caso, il fatto che l’Agenda si proponga come punto di arrivo la cessazione di questo tipo di maltrattamenti, sebbene si tratti di una strada molto articolata e a suo modo complessa da percorrere.

Cessazione di ogni forma di violenza: e il Medio Oriente?

Riallacciandomi al punto numero 16.2 del Goal, nel quale si fa esplicito riferimento alla cessazione di ogni forma di violenza, mi preme focalizzarmi su una questione che sembra in realtà capovolgere in maniera irreversibile questi buoni propositi. 
Appare quasi d’obbligo soffermarsi, infatti, a mio avviso, su di un argomento che in questi ultimi giorni sta scuotendo il panorama orientale e non solo: le tensioni crescenti tra le autorità palestinesi e quelle israeliane. 
Sebbene non sia contesto adatto per una trattazione approfondita della tematica, è doveroso fare un breve riferimento a tale situazione, che sembra annullare la prospettiva di una definitiva attuazione di una delle proposte dell’Agenda. 
Prendendo atto del fatto che la questione politica, che riguarda da un lato la Palestina del governatore Maḥmūd ʿAbbās e dall’altro l’Israele guidato da Benjamin Netanyahu, abbia origini recondite, la lotta civile tra le due parti si spinge ben oltre il puro scopo di danneggiamento politico e militare. Gli effetti e le conseguenze di queste offese reciproche, infatti, interessano prevalentemente la popolazione locale. 
Quella riduzione della violenza che l’Agenda si propone di attuare in “ogni dove”, riguarda esattamente questo tipo di ingiustificabile sopraffazione politica, nei confronti dei cittadini delle singole parti. 
Donne, uomini, anziani, ma soprattutto bambini. Sono queste le vittime delle atrocità di questa straziante guerra. Circa 60 bambini, al di sotto dei 18 anni, sono stati uccisi in pochissimi giorni dalla ferocia dei governi nemici. E i numeri sono inevitabilmente destinati a crescere. 
In questo caso, ci si aspetta che il Goal 16 venga preso in considerazione in tutti i suoi aspetti, dalla cooperazione internazionale, fino al definitivo “Cessate la violenza”, che risuona nelle menti dei cittadini palestinesi ed israeliani ed oramai anche nel resto della popolazione mondiale. 

Altrimenti questa sensazionale favola, chiamata Agenda 2030, a quali bambini verrà raccontata?

Fonti

Life on Land

Goal #15: Proteggere, ripristinare e favorire un uso sostenibile dell’ecosistema terrestre

Il Goal ha l’obiettivo di proteggere, ripristinare e salvaguardare gli ecosistemi terrestri e la loro biodiversità, promuovere l’uso sostenibile delle foreste, contrastare la desertificazione, arrestare e far retrocedere il degrado del suolo. Interessa l’intero pianeta, colpito in ogni sua parte da diverse forme di degrado dell’ambiente e del territorio.
Gli ecosistemi con il loro equilibrio dinamico garantiscono l’aria pulita producendo ossigeno e riducendo le emissioni di anidride carbonica e degli inquinanti, contribuiscono al ciclo dell’acqua e delle sostanze, assicurano uno sviluppo economico sostenibile.
Gli ambienti naturali con la loro biodiversità contribuiscono alla riduzione della povertà garantendo la salute e la sicurezza alimentare, mettendo a disposizione acqua e aria pulite, immagazzinando le emissioni di CO2 e fornendo una base allo sviluppo ecologico.
A causa delle attività umane e del cambiamento climatico, ogni anno spariscono 13 milioni di ettari boschivi, 1/3 delle specie animali è in pericolo di estinzione e il 50% del suolo agricolo a livello mondiale è degradato dall’inquinamento, dal sovra sfruttamento e dalla desertificazione. 

Nel contesto italiano, i progressi sono monitorati principalmente nel campo della protezione degli ambienti naturali e nel contrasto al degrado del territorio e alla perdita di biodiversità. In Italia, secondo il Rapporto ISTAT 2020, il 30% del territorio è coperto da boschi la cui estensione è in aumento (+0,6%) così come la loro densità in termini di biomassa (da 95 a 111 t/ha). La crescita delle aree forestali è positiva in termini di aumento; l’assorbimento del carbonio, comporta tuttavia rischi di degrado, essendo in gran parte il risultato spontaneo dell’abbandono di aree agricole marginali e di una crescente sottoutilizzazione delle risorse forestali con conseguente trasferimento all’estero di parte della pressione generata dalla domanda interna di legno e derivati.
Il consumo di suolo continua ad aumentare (circa 48 km2 di nuove superfici asfaltate o cementificate nel corso del 2018) ; il 7,6% del territorio è coperto da superfici artificiali impermeabili e il 40% presenta un elevato grado di frammentazione, deleterio per la funzionalità ecologica. Molto critica è la situazione della biodiversità: nel nostro Paese sono a rischio di estinzione oltre il 30% delle specie di Vertebrati e circa il 20% delle specie di Insetti classificate nelle Liste rosse italiane delle specie minacciate, mentre continua a crescere la presenza di specie alloctone invasive (in media, più di 11 nuove specie introdotte ogni anno, dal 2000 al 2017).

Occorre dirigersi fortemente verso un drastico cambiamento. L’approccio che abbiamo nei confronti dello sfruttamento delle risorse ambientali ed energetiche deve essere rivoluzionato.

Green Washing

Oggi vi parlerò di coloro che dichiarano di lavorare per effettuare questo cambiamento e salvaguardare l’ambiente, ma che, in realtà, continuano a portare avanti le loro politiche economiche.
Uno dei fenomeni che in questo periodo si sta diffondendo maggiormente, e che va in netta contrapposizione con la necessità di trasformare il nostro approccio al mondo e alle risorse ambientali, è il Greenwashing.
Il greenwashing è una strategia di comunicazione adottata da un brand che si dichiara rispettosa dei principi della sostenibilità ambientale, non accompagnando le parole ad iniziative concrete e tangibili.
In altre parole, il brand che fa greenwashing si attribuisce meriti che non ha nella lotta alle problematiche ambientali, ponendosi come unico fine il godimento dei benefici legati alle etichette bio, eco, green, presso l’opinione pubblica e i media.

Questo fenomeno è tra i più importanti nemici degli obiettivi dell’Agenda 2030.

Il Caso Eni

Eni è una delle aziende risultata colpevole di greenwashing

Greenpeace negli ultimi giorni si è fatta portavoce di una battaglia, contro le politiche portate avanti dalla multinazionale energetica, denominata #LeBugiediEni. Alcuni membri dell’organizzazione fondata a Vancouver, hanno preso posizione di fronte al quartier generale a Roma di Eni, alla vigilia dell’assemblea dei soci. Gli attivisti in kayak hanno aperto degli striscioni mentre nel laghetto all’Eur di fronte alla sede di Eni è stata collocata la riproduzione galleggiante di un iceberg che si scioglie, per rappresentare, viene spiegato, “i drammatici impatti dell’emergenza climatica”.

In questa analisi di Greenpeace, emergono alcune delle politiche portate avanti da Eni, che sono in netta contrapposizione con l’immagine “green” che l’azienda ha dipinto tramite la proprie campagne di comunicazione.Il titolo del Piano che Eni ha presentato parla di completa decarbonizzazione al 2050 (con maggior precisione: emissioni nette 0 al 2050). Obiettivo interessante, se non fosse che in realtà l’azienda prevede di abbattere il 75% delle proprie emissioni di CO2 dopo il 2030, per tagliare solamente il 25% entro il 2030. Ignorando quanto sostiene da tempo la comunità scientifica, ovvero che il decennio 2020-2030 è quello in cui dobbiamo concentrare i massimi sforzi di decarbonizzazione. E negli anni che ormai ci restano fino al 2030, così decisivi per le sorti del Pianeta, Eni che fa? Anche in questo nuovo piano prevede di aumentare l’estrazione di gas, e di continuare a estrarre petrolio: due fonti responsabili dell’emergenza climatica.

Greenpeace Italy activists take action against the oil drilling platform Prezioso, off the coast of Sicily.

Il caso Eni è solo uno dei tanti. 

L’unica soluzione di cui dobbiamo prendere atto è cambiare il paradigma che finora ha guidato la gestione energetica, che si basa esclusivamente su parametri meramente economici.

Le soluzioni giuste devono essere prese immediatamente. Non si può più posporre il tema della transizione ecologica. L’ abbandono dei correnti metodi di produzione di energia basati sui combustibili fossili devono essere abbandonati. Le energie rinnovabili devono essere al centro di questa transizione. Tutti dobbiamo contribuire a cambiare il paradigma attuale. 

L’alternativa si chiama estinzione.

Preservare il mare per preservare il nostro futuro

L’acqua rappresenta il presupposto della vita e come tale deve essere difesa e salvaguardata. Gli oceani ricoprono la maggior parte della superficie terrestre (circa il 71%), rappresentano il più grande ecosistema del pianeta e la loro complessità ha garantito lo sviluppo e la crescita della vita sulla Terra. La temperatura, le correnti e le forme di vita acquatiche influenzano i sistemi globali in maniera determinante. Dal meteo fino al clima, dall’ossigeno presente nell’aria che respiriamo fino all’acqua che beviamo, tutti questi elementi sono regolati e influenzati dal mare. 

A livello globale, il valore di mercato stimato delle risorse e delle industrie marine e costiere è di tremila miliardi di dollari annui, ovvero circa il 5% del PIL globale.  Più di tre miliardi di persone dipendono dalla biodiversità marina e costiera per la loro sopravvivenza. Quasi il 7% delle proteine assunte dalla popolazione mondiale proviene dal pesce.

Nel corso della storia, gli oceani e i mari sono stati e continuano ad essere canali vitali per il commercio ed il trasporto. Una gestione responsabile di questa fondamentale risorsa globale è alla base di un futuro sostenibile. Il riferimento dell’obiettivo numero 14 dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile è quindi incisivo in questa direzione, in quanto si richiede la conservazione ed un uso più responsabile e durevole degli oceani, dei mari e di tutte le risorse contenute al loro interno.

Un mare di plastica

Un rapporto realizzato da Greenpeace stima che ci siano oltre 5,25 trilioni di pezzi di plastica galleggianti sugli oceani del mondo, che pesano oltre 250.000 tonnellate. Tutto questo inquinamento ha avuto un grave impatto sull’ambiente, con prove che suggeriscono persino che organismi marini fino a 10 km sotto la superficie hanno ingerito frammenti di plastica. L’infografica che segue è stata realizzata da Statista e mostra la distribuzione dell’inquinamento da plastica negli oceani del mondo. 

https://www.statista.com/chart/8616/the-worlds-oceans-are-infested-with-plastic/

Il Pacifico settentrionale ha il più alto livello di contaminazione con quasi 2 trilioni di pezzi di plastica, mentre l’Oceano Indiano è secondo con 1,3 trilioni. Sempre secondo Greenpeace, le prime 6 aziende al mondo vendono bottiglie di plastica del peso di oltre 2 milioni di tonnellate ogni anno. Nonostante il riciclaggio di questi materiali sia molto efficiente, ancora troppe unità di plastica finiscono nelle discariche e negli oceani.

La pesca insostenibile

Un’altra grave minaccia per il mare è rappresentata dalle pratiche di pesca intensiva, le quali stanno cancellando velocemente molte specie marine. Quando si pesca più velocemente della capacità dei pesci di riprodursi, è inevitabile un impatto totalmente deleterio sugli ecosistemi dei mari e degli oceani. Negli ultimi 60 anni la pesca a livello mondiale si è intensificata a tal punto che circa un terzo degli stock ittici risulta eccessivamente sfruttato: nel Mar Mediterraneo, ad esempio, si parla addirittura del 93%. 

Secondo il nuovo rapporto FAO Lo Stato Mondiale della Pesca e dell’Acquacoltura, la produzione di acquacoltura oramai rappresenta il 52% del pesce destinato al consumo umano. Questo significa che metà del pesce che arriva sulle tavole dei consumatori proviene dagli allevamenti ittici, dove il modello di produzione predominante è quello industriale e intensivo. 

Seaspiracy è un documentario distribuito da Netflix che ha recentemente riscosso molto successo. Il suo ideatore, Ali Tabrizi, ha svolto molte ricerche sul campo per portare alla luce tutte le ombre della pesca intensiva; un viaggio che parte dal sud dell’Inghilterra e arriva alle coste della Liberia, passando per il Giappone, la Thailandia, Hong Kong, con un epilogo cruento nelle isole Fær Øer, e mettendo sotto accusa l’industria della pesca nel suo complesso. Secondo il regista, queste pratiche porteranno all’estinzione della maggior parte delle specie marine entro il 2048. 

Il ruolo dell’Europa

Il 17 giugno 2008 il Parlamento Europeo ed il Consiglio dell’Unione Europea hanno emanato la Direttiva 2008/56/CE, detta anche Marine Strategy Framework Directive, che aveva come obiettivi inziali la tutela della biodiversità marina ed il raggiungimento della soglia di inquinamento zero in mare. La Direttiva si basa su un approccio integrato e si proponeva di diventare il pilastro ambientale della futura politica marittima dell’Unione Europea. Dato il carattere innovativo, pur essendo stato di recente superato il limite temporale di attuazione (inizialmente previsto per il 2020), essa è il fondamento delle attuali e future politiche per la salvaguardia degli ambienti marini.

Come già avevamo affrontato il tema in un altro articolo, il Green Deal europeo rappresenta un piano per rendere sostenibile l’economia dell’UE. L’Europa vanta una salda posizione di partenza quando si tratta di sviluppo sostenibile ed è anche fortemente impegnata, insieme ai suoi paesi membri, ad assumere il ruolo di apripista nell’attuazione dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite e, nello specifico, dell’obiettivo numero 14 per la conservazione dei mari e degli oceani.

E l’Italia? 

Il nostro paese si è reso protagonista di forti ritardi rispetto al recepimento della legislazione europea. Secondo il Rapporto ASviS 2020, infatti, gli stock ittici italiani sono ampiamente sovra sfruttati rispetto alla media Ue. La recente relazione sullo stato di attuazione della Marine Strategy Framework Directive, presentata dalla Commissione Europea il 25 giugno 2020, evidenzia, infatti, i ritardi nella presentazione delle relazioni previste dalla Direttiva e la carenza di molti dei dati conoscitivi. L’Italia risulta ancora tra gli Stati membri con sensibili inadempienze, nonostante la fondamentale importanza ambientale e socioeconomica che il mare riveste per il nostro Paese.

Sempre secondo il Rapporto ASviS 2020, a livello globale si segnala un aumento dell’acidità degli oceani del 10-30% rispetto al periodo 2015-2019, con gravi conseguenze sulla fauna, sulle barriere coralline e sulla flora marina. Ci sono anche dei segnali positivi fortunatamente, dal momento che si è registrato un aumento delle aree marine protette, raddoppiate rispetto al 2010.

Un cambio di passo è più che mai necessario ed ASviS ha presentato alcune proposte concrete per accelerare il processo di attuazione della legislazione europea e dell’obiettivo numero 14 dell’Agenda 2030, tra cui: 

  • Colmare i ritardi sulla Marine Strategy Framework Directive per conseguire un buono stato ecologico
  • Promuovere la piccola pesca, coinvolgendo pescatori, associazioni di categoria, istituzioni ed enti di ricerca;
  • Un approccio bottle to bottle in un’ottica di economia circolare, per la riduzione di nuova plastica per liquidi;
  • Dare riconoscimento giuridico al Piano di azione regionale della Commissione generale della pesca in Mediterraneo (organizzazione regionale che fa parte della Fao e unisce 22 Paesi tra cui l’Italia).

I’d like to be under the sea, in an octopus’s garden in the shade cantavano i Beatles negli anni 70, ed il testo, scritto da Ringo Starr, fu ispirato da una vacanza del batterista in Sardegna di qualche anno prima. Da sempre esiste un rapporto di amore e rispetto tra l’uomo ed il mare; per tenere fede a quella relazione dobbiamo agire al più presto e fare in modo che il mare ritorni ad essere vitale e sano, in modo da consentire benessere per tutti ed un domani votato alla sostenibilità. L’acqua rappresenta la vita e come tale deve essere salvaguardata. Se preserveremo gli ecosistemi marini preserveremo anche il nostro futuro.

Cambiamento climatico e politiche in Europa

L’Obiettivo di Sviluppo sostenibile numero 13 non poteva essere scritto con più chiarezza: adottare misure urgenti per combattere i cambiamenti climatici e le loro conseguenze. Un unico grande obiettivo spiegato in una semplice frase. Vediamo in quest’articolo quali sono i rischi del cambiamento climatico e come l’Unione Europea sta agendo per far fronte alla minaccia.

La minaccia del cambiamento climatico

Il clima globale è variato notevolmente nel corso della storia della Terra. Negli ultimi decenni del ventesimo secolo, il mondo ha sperimentato un tasso di riscaldamento senza precedenti da migliaia di anni, per quanto possiamo dire dalle prove disponibili. L’aumento della temperatura media globale è stato accompagnato da continui aumenti delle temperature e dell’accumulo di calore oceanico, del livello del mare e del vapore acqueo atmosferico. C’è stata anche una riduzione delle dimensioni delle calotte glaciali e della maggior parte dei ghiacciai. Il recente rallentamento del tasso di riscaldamento superficiale è dovuto principalmente alla variabilità climatica che ha redistribuito il calore nell’oceano, provocando il riscaldamento in profondità e il raffreddamento delle acque superficiali.

Le attività umane stanno aumentando le concentrazioni di gas serra nell’atmosfera. È estremamente probabile che questo aumento abbia causato la maggior parte del riscaldamento globale osservato di recente, con la CO2 che è il maggior contributore.

Se le emissioni di gas serra continuano a crescere rapidamente, si prevede che, entro il 2100, la temperatura media globale dell’aria sulla superficie terrestre si scalderà di circa 4 ° C rispetto alle temperature della metà del XIX secolo. Ci sono molte probabili ramificazioni di questo riscaldamento. Tuttavia, se le emissioni vengono ridotte sufficientemente rapidamente, c’è la possibilità che il riscaldamento medio globale non superi i 2 ° C e gli altri impatti saranno limitati.

Dalla metà del XX secolo, il cambiamento climatico ha determinato un aumento della frequenza e dell’intensità dei giorni molto caldi e una diminuzione nei giorni molto freddi. Queste tendenze continueranno con un ulteriore riscaldamento globale. Gli eventi di forti piogge si sono intensificati sulla maggior parte delle aree terrestri e probabilmente continueranno a farlo, ma si prevede che i cambiamenti varieranno a seconda della regione.

Il livello del mare è aumentato durante il XX secolo. I due principali fattori che contribuiscono sono l’espansione dell’acqua di mare durante il riscaldamento e la perdita di ghiaccio dai ghiacciai. È molto probabile che il livello del mare aumenti più rapidamente durante il ventunesimo secolo rispetto al ventesimo secolo e continuerà a salire per molti secoli.

Il cambiamento climatico ha impatti sugli ecosistemi, sui sistemi costieri, sui regimi antincendio, sulla sicurezza alimentare e idrica, sulla salute, sulle infrastrutture e sulla sicurezza umana. Gli impatti sugli ecosistemi e sulle società si stanno già verificando in tutto il mondo.

Se le emissioni di gas serra continuano ad essere elevate, è probabile che la componente del cambiamento climatico indotta dall’uomo supererà la capacità di adattamento di alcuni paesi.

Esiste un accordo quasi unanime tra gli scienziati del clima sul fatto che il riscaldamento globale causato dall’uomo sia reale. Tuttavia, il futuro cambiamento climatico e i suoi effetti sono difficili da prevedere con precisione, soprattutto a livello regionale e locale. Molti fattori impediscono previsioni più accurate ed è probabile che qualche incertezza permanga per molto tempo.

Ecco che l’Obiettivo di Sviluppo Sostenibile numero 13 attira l’attenzione sull’azione delle nazioni: devono fare scelte su come rispondere alle conseguenze del futuro cambiamento climatico. Le strategie disponibili includono la riduzione delle emissioni, la cattura di CO2, l’adattamento e la “geo-ingegneria”. Queste strategie, che possono essere combinate, comportano diversi livelli di rischio ambientale e diverse conseguenze per la società. Il ruolo della scienza del clima è quello di informare le decisioni fornendo la migliore conoscenza possibile sui risultati climatici e sulle conseguenze di strategie di azione alternative.

L’Unione europea contro l’inquinamento industriale

L’SDG 13 è stato preso piuttosto seriamente dall’Unione Europea, soprattutto in termini di azioni contro l’inquinamento atmosferico, è definito come l’aggiunta di varie sostanze chimiche pericolose, particolato, sostanze tossiche e organismi biologici all’atmosfera terrestre. Ci sono diversi fattori che causano l’inquinamento atmosferico, ma ciò che proviene da industrie e fabbriche è spesso considerato un fattore importante nell’inquinamento atmosferico. Secondo uno studio condotto dalla Environmental Protection Agency, o EPA, si è scoperto che l’inquinamento industriale rappresenta circa il 50% dell’inquinamento negli Stati Uniti d’America. Esistono numerose gravi implicazioni ecologiche e rischi per la salute associati all’inquinamento atmosferico industriale.

Anche in Europa le concentrazioni di inquinanti atmosferici sono ancora troppo elevate e persistono problemi di qualità dell’aria da parte delle industrie.

L’UE agisce a molti livelli per ridurre l’esposizione all’inquinamento atmosferico e per migliorare la qualità dell’aria, negli ultimi anni l’azione più importante dell’Unione Europea in campo ambientale è il “New Green Deal”, un piano di finanziamento che mira a migliorare il settore dell’economia circolare, riducendo notevolmente l’inquinamento da industrie.

Svolge un ruolo fondamentale l’Agenzia europea dell’ambiente (AEA) la quale è il centro dati sull’inquinamento atmosferico dell’Unione europea e sostiene l’attuazione della legislazione dell’UE relativa alle emissioni al monitoraggio della qualità dell’aria; in particolare, il lavoro dell’AEA si concentra su:

  • mettere a disposizione del pubblico una serie di dati sull’inquinamento atmosferico;
  • documentare e valutare le tendenze dell’inquinamento atmosferico e le relative politiche e misure in Europa;
  • studiare i compromessi e le sinergie tra l’inquinamento atmosferico e la politica in diverse aree, inclusi i cambiamenti climatici, l’energia, i trasporti e l’industria.

La società dei consumisti e degli spreconi

A fine ‘800 Marx delineava i contorni del gigante che la società andava costituendo: una macchina che macina, produce, consuma ed è interessata all’acquisto di beni superflui e bisogni fittizi, spacciati per reali e necessari da pubblicità o fenomeni sociali.                                Questo ha portato al consumismo di cui, oggi, paghiamo le conseguenze: il “feticismo della merce”, teorizzato dal filosofo, si è manifestato come fenomeno di massa, subito dopo la seconda rivoluzione industriale.

Ritmi di consumo non più sostenibili

In una società del genere la produzione “produce” il consumo e non viceversa. “Produce” l’oggetto, la modalità e la spinta verso il consumo, ma non aspetta il meccanismo della domanda e dell’offerta, a cui bisogna tornare per produrre in modo più sostenibile, come sprona l’obiettivo 12 dell’Agenda 2030: produrre di più,con meno risorse, meglio spese. 

Si rivela, allora, necessario che tutti, in qualsiasi angolo di mondo, siano educati alla sostenibilità e ad uno stile di vita in linea con il proprio tempo e la natura in cui si trovano. 

La mancanza di educazione al consumo sostenibile ha portato a enormi sprechi.                   Basti pensare che ogni anno circa un terzo del cibo prodotto (1,3 miliardi di tonnellate) diventa spazzatura ora dei commercianti, ora dei consumatori, perché scaduto o mal conservato.                                                                                                                                                          
Il cibo ha, quindi, un importante impatto ambientale, ma non è il solo bene che gestiamo male. Nella lista, infatti, troviamo anche energia e acqua, a cui abbiamo già fatto riferimento negli articoli sdg 6 e 7.                                                                                                                
Le risorse naturali necessarie alla vita sulla Terra sono a malapena sufficienti in questo momento, ma se la popolazione mondiale raggiungesse i 10 miliardi entro il 2050 saremmo costretti a cercare risorse su altri pianeti: ne servirebbero tre. 

Un ambiente in cui si produce, acquista, indossa e consuma male

In ambienti come la moda, in particolare la moda veloce e ad alto consumo, conosciuta come fast fashion, lo spreco di risorse e lo smaltimento errato di prodotti viaggia di pari passo.

In questo tipo di moda le aziende producono e vendono velocemente, i capi sono economici e ispirati all’alta moda. L’espressione fu coniata dal New York Times nel 1989 proprio all’apertura del negozio nella Grande Mela di uno dei colossi del settore: Zara.

Tuttavia, i danni che questa industria provoca sono enormi: secondo i dati della Commissione Economica per l’Europa delle Nazioni Unite, la fast fashion causa il 20% dello spreco globale dell’acqua ed emette, oltre ai gas serra, anche il 10% delle emissioni di anidride carbonica. Per Ecowatch, ogni secondo, 1.4 milioni di litri d’acqua sono usati per poter realizzare 200+ paia di jeans, al prezzo di metà della quantità d’acqua di una piscina olimpionica. 

In un sistema, dove passano 15 giorni dall’ideare un capo al ritrovarlo in vendita sugli stand in negozio, la merce invenduta è tanta e non tutte le aziende hanno elaborato metodi di riciclo: nel 2018 H&M ha avuto una quantità di invenduto pari a 4 miliardi di dollari. Ogni secondo, infatti, un camion della spazzatura colmo di tessuti finisce in discarica stando ad un recente studio della Ellen McArthur Foundation.                                                
Il Summit della moda di Copenaghen ha riferito che le tonnellate di rifiuti solidi di cui la moda è responsabile sono 92 milioni ogni anno.

Spreco alimentare e consumo eccessivo

Lo spreco alimentare non è solo l’insieme dei prodotti scartati nella catena che li produce durante le sue prime fasi: il cibo è spesso sprecato a fine catena di produzione, quando si trova nei nostri frigo e nelle nostre dispense. Oltre all’impatto sull’ambiente dell’energia consumata per la produzione e la conservazione (30% del consumo totale di energia) troviamo dunque anche quello dei rifiuti.

Per uno sviluppo sostenibile è, quindi, necessario dover intervenire anche nell’educazione alimentare: i dati nel Food Waste Index Report 2021 e del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (Unep) riferiscono che a buttare cibo sono le famiglie che scartano l’11% degli alimenti, mentre servizi e punti vendita ne sprecano tra il 2 e il 5%.                                            Sono, allora, le abitudini alimentari ad avere molte lacune: ogni anno vengono gettati 27 kg di cibo a testa, 74 kg a livello familiare.

Tuttavia, in Italia, secondo un’indagine di Coldiretti, la sensibilità in questione è considerevole: nel 2020, più di 1 italiano su 2 ha diminuito o annullato gli sprechi alimentari, adottando diverse strategie, forse per effetto pandemia, dato che, come ci comunica il Waste Watcher International Observatory, nel 2019 gli italiani avevano sprecato l’11,78% in più.

È in questo contesto che risultano fondamentali iniziative come TooGoodToGo, piattaforma che mette a contatto clienti e ristoratori di ogni tipo che a fine giornata non hanno venduto quanto hanno prodotto e quindi lo svendono: un semplice gesto per contrastare la frana di quei 15 miliardi totali di euro che vale il cibo sprecato finora in Italia. 

Anche l’Onu considera fondamentale che i consumatori siano guidati e aiutati per ridurre gli sprechi in casa (che avvengono per errata conservazione, eccessivo acquisto, dimenticanza)  anche a fronte delle 690 milioni di persone colpite dalla fame nel 2019, e destinate ad aumentare a causa dell’emergenza sanitaria Covid di cui abbiamo trattato nell’articolo “Zero Hunger”.                               

Doing more with less            

Il principio guida del dodicesimo obiettivo dell’Agenda 2030 intende spronare i produttori ad assumere ottiche sostenibili (prospettiva per cui in Italia possiamo ben sperare stando agli ultimi snodi del governo recente) e i consumatori a limitarsi ed essere più consapevoli dei costi di entrambe le parti.    

Miriamo al contrasto della povertà, nostra come del Pianeta, al miglioramento dello standard di vita (ridurre la fame e migliorare la salute) e allo sviluppo economico in un modello di economia circolare che chiude il ciclo di consumo e riciclo e ottimizza tempi e risorse, perché altri 3 pianeti dove andare ad estrarre quanto serve su questo non sono dietro l’angolo.  

Città sostenibili: nel Paese delle Meraviglie

L’Evoluzione

Tornando indietro nel tempo ed osservando la nostra storia, l’uomo da nomade è diventato sedentario per assecondare i propri bisogni, occupando sempre più luoghi e definendo confini, permettendo alla crescente popolazione un posto sicuro dove trascorrere la propria vita.
Ad un certo punto del processo, si è arrivati all’incremento di spazi destinati alle abitazioni, in un ambiente sempre più ristretto: le persone aumentavano, mentre la Terra sembrava rimpicciolirsi. 
Ed è proprio qui che l’esigenza è divenuta costruire non più soltanto in orizzontale, bensì in verticale, permettendo a più persone di vivere in uno stesso spazio di terreno, semplicemente le une sopra le altre.

Secondo i dati pubblicati dal Centro Regionale di informazione delle Nazioni Unite, ad oggi sono 3,5 miliardi le persone che vivono in città, stimando che nel 2030 il 60% della popolazione mondiale abiterà in aree urbane, sfruttando soprattutto le zone dei paesi in via di sviluppo.

Ma cosa significa abitare in un luogo che sia resiliente e sostenibile, oltre che sicuro?

L’undicesimo obiettivo dell’Agenda 2030 propone di rendere le città e gli insediamenti umani, inclusivi, sicuri, duraturi e sostenibili.

Abbiamo alle comunicazioni Istat, nel 2018 si è registrato un particolare aumento nei casi di famiglie costrette a vivere in abitazioni sovraffollate (27,8%), situazioni che generano, come principale conseguenza, l’incremento di costruzioni ed occupazioni abusive.
Il traguardo diviene, quindi, quello di poter garantire l’accesso ad abitazioni e servizi di base adeguati e sicuri, necessari per lo sviluppo di città sostenibili.
In Italia, si scontrano con questa dura realtà il 15,5% delle famiglie, uno tra i dati più alti nei Paesi dell’Unione Europea, al pari della Grecia, con al seguito Slovacchia, Polonia, Croazia, Bulgaria ed infine Romania, la percentuale più preoccupante: 46,3% (Istat “Informazioni statistiche per l’Agenda 2030 in Italia”).

Trasporti accessibili

Parlare di città sostenibili significa non solo fare riferimento alle percentuali di inquinamento presenti, assicurando una giusta salvaguardia per la salute delle persone, ma anche garantire al singolo la possibilità di spostarsi facilmente per poter raggiungere luoghi di studio e lavoro: la mobilità sul territorio come argomento cruciale per la sostenibilità urbana.
Scegliere mezzi di trasporto pubblici al posto dei propri può avere un importante impatto positivo sul tasso d’inquinamento, ma che voi siate pendolari o meno, sicuramente sarete a conoscenza dello stress che comporta questa tipologia di spostamento.
È necessario investire in questo presente, migliorando i nostri sistemi pubblici non solo in progettazione e velocità, ma soprattutto rendendoli accessibili.Grazie alle indagini Istat, emerge che tali mezzi non vengono utilizzati più per difficoltà dicollegamento che per scelta personale, una difficoltà che in Campania interessa la metà delle famiglie presenti nella regione (55,9%), con impatto ancora più significativo nei piccoli comuni del nostro Paese: un’incidenza del 49,2% rispetto al 28% rappresentativo delle aree metropolitane.

Inquinamento dell’aria

L’Agenzia europea per l’ambiente ci parla di circa 80 mila morti premature, nel 2016, come conseguenza ad una prolungata esposizione a polvere sottili.
Grandi concentrazioni di persone nelle città, significa anche essere soggetti ad un aumento dell’inquinamento dell’aria, derivante non solo da mezzi di trasporto, ma anche da tutto ciò che costituisce una area urbana e le permette di rimanere in vita.
L’aria che respiriamo viene costantemente monitorata da centraline che, raccogliendo le informazioni, ci aggiornano sul superamento dei limiti stabiliti dalla legge.
L’Europa, all’inizio del nuovo secolo, era riuscita a porre un freno all’incremento di questi valori, arrivando a livelli minimi, mai raggiunti, e riuscendo a mantenerli col passare degli anni.
Nel 2017 alcuni Paesi non sono più riusciti a controllare e assicurare questo aspetto, regredendo e, in alcuni casi, peggiorando rispetto allo stadio di partenza.
Tra questi Paesi vi rientra l’Italia.

Gestione dei rifiuti

La gestione dei rifiuti non risulta mai totalmente trasparente e per questo assume una posizione prioritaria nell’amministrazione delle città.
Grazie alle innovazioni tecnologiche e ad una maggior consapevolezza del singolo, le campagne a promozione della raccolta differenziata, e del recupero per il riciclo, portano dal 2006 dati di miglioramento in termini di quote di rifiuti conferiti in discarica.
Nel 2018 tali rifiuti ammontano a 6.5 milioni di tonnellate: solo un quinto rispetto al totale dei prodotti.
Inoltre, è importante evidenziare che le diverse regioni presentano situazioni ben diverse tra loro, dovendo anche tener conto dei flussi di scarti in entrata ed uscita da queste.Molise, Liguria e Marche manifestano un particolare incremento poiché, soprattutto il Molise, è responsabile per lo smaltimento del 47% di rifiuti provenienti da altre regioni, mentre alcune diminuzioni si riscontrano in Basilicata, Sardegna Piemonte (Istat “Informazioni statistiche per l’Agenda 2030 in Italia”).


Tra aspetti migliorati e migliorabili, l’undicesimo obiettivo ha ancora molti piani da studiare e progetti da approvare per potersi sentire più vicino alle nuove comunità nascenti: per loro, speriamo in vicini di casa meno rumorosi.

Uguaglianza: una battaglia ancora in corso

L’inclusione sociale, economica e politica

Secondo un’indagine dell’Istat nel 2019 in Italia c’erano quasi 2 milioni di famiglie in condizione di povertà assoluta, pari a circa 4,6 milioni di individui. La povertà è il primo degli obiettivi dell’Agenda 2030, e ne abbiamo parlato ampiamente in un articolo. Questo triste dato dipende da molti fattori, primo tra tutti il fatto di non avere accesso a un lavoro, di non avere un supporto sociale o statale, e di non avere le capacità o le possibilità di trovarli. 

L’inclusione sociale, economica e politica dovrebbe essere a disposizione di tutte e di tutti. Questo perché partecipare alla vita del proprio paese è fondamentale per poter attuare quei processi sociali in grado di migliorare il livello di vita degli individui stessi. L’inclusione sociale permette di avere a disposizione una rete di individui, familiari e non, su cui poter fare affidamento. L’inclusione economica permette di avere un lavoro in grado di soddisfare i propri bisogno primari e quelli della propria famiglia. L’inclusione politica, infine, permette di partecipare alla vita pubblica, prendendo decisioni importanti sullo sviluppo e sul cambiamento del paese.

Per poter garantire inclusione c’è ovviamente bisogno di assicurare a chiunque pari opportunità. Purtroppo anche questo punto non è stato ancora risolto, e siamo ancora lontani da una soluzione definitiva. Argomento sempre molto caldo è quella della differenza di genere, essendo la lotta ancora in corso (ne abbiamo parlato qui ). Il Global Gender Gap 2020 ci mette di fronte a una cruda realtà: anche se la parità di genere è stata completamente raggiunta per quanto riguarda l’istruzione in 40 dei 153 paesi studiati, ci vorranno ancora 95 anni per poter arrivare a una parità completa per quanto riguarda la rappresentazione politica.

The Global Gender Gap index ranking 2020

Questo è solo un esempio, ma basta prendere uno qualsiasi tra gli altri parametri sociali (età, etnia, religione, disabilità, origine, status economico) per avere gli stessi risultati alquanto disastrosi. L’associazione statunitense no-profit National Partnership for Women and Families ha unito il parametro del sesso di nascita con l’etnia, svolgendo un’indagine molto importante negli Stati Uniti. Lo scorso marzo hanno pubblicato i risultati: le donne di colore vengono pagate 63 cents per ogni dollaro guadagnato da un uomo bianco, le donne ispaniche 55 cents e le donne bianche 79 cents.

Migrazione ordinata e sicura

Facilitare la migrazione sicura e ordinata non poteva mancare come obiettivo altrettanto condivisibile e ugualmente difficile da realizzare. La geopolitica internazionale è arrivata a dei livelli di complessità forse mai visti prima. Gli interessi politici delle singole nazioni si sovrappongono agli interessi economici delle altre nazioni, in un circolo vizioso senza fine. In tutto questo calvario le povere persone che cercano di fuggire da guerre e fame non trovano mai il loro posto nel mondo. l’Italia è tra i primi Paesi a non impiegare tutte le forze a sua disposizione per poter rendere più sicura la migrazione. Ma riconosciamo anche il difficile compito nel dover salvare, salvaguardare e inserire nel contesto sociale circa 180 mila sbarchi nel 2016 e, più recentemente, meno di 20 mila nel 2019. Per il 2020 sono stati calcolati circa 13 mila sbarchi. Situazioni simili si stanno verificando in molte altre parti del mondo: in Siria a migliaia cercano di scappare dalla guerra ormai decennale, passando dalla Turchia, che utilizza i migranti come una minaccia contro l’Unione Europea. La situazione è sicuramente complicata e non facile da gestire.

Non è una novità il fatto che nuove forme di razzismo si stiano diffondendo a macchia d’olio, fomentato da partiti e leader di destra. È di pochi giorni fa la notizia di una sparatoria ad Atlanta che ha lasciato otto vittime, tutte donne asiatiche. Le campagne sui social e le manifestazioni che sono seguite, guidate dallo slogan “Stop Asian Hate”, non sono più un evento eccezionale ma la normalità, soprattutto in America. Basta ricordare le numerose manifestazione a sostegno di Black Lives Matter che si sono tenute l’estate scorsa: migliaia di americani hanno violato le regole anti-covid per protestare contro la brutalità della polizia. La verità è che, ancora oggi, se sei bianco e commetti una strage, vieni arrestato e condotto in prigione. Se invece hai la carnagione scura vieni ucciso anche se sei disarmato. 

Il fatto che l’obiettivo 10  probabilmente non verrà realizzato a pieno entro il 2030, non vuol dire che i Paesi non si stiano impegnando per realizzarlo, anche se ad oggi appare ancora utopistico. È sempre un bene che la comunità internazionale si ponga degli obiettivi: più ambiziosi sono e più c’è la possibilità che le persone provino a realizzarli.

Pensiamo veramente di essere solo delle scimmie con la capacità di saper sognare in grande? 

Per approfondire:

L’accelerazione della società digitale

Nel 2020 le nostre vite sono cambiate radicalmente. Chi più chi meno, tutti abbiamo dovuto rivedere le nostre abitudini e il nostro stile di vita, per adattarci alla situazione dovuta alla pandemia globale che ci ha travolto. L’emergenza legata alla diffusione del nuovo virus Sars Covid-19 ha determinato una sequenza di cambiamenti rapidi, invasivi e spesso difficili da accettare, i quali hanno portato ad un clima di incredibile incertezza e instabilità nel mondo.

Nei mesi passati, il concetto di resilienza è stato centrale per contrastare questa straordinaria situazione e lo sarà ancora per molto. L’SDG numero 9 attribuisce molta importanza proprio alla resilienza, nel modo in cui va inteso lo sviluppo delle infrastrutture e promuovendo in particolare l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione.

È innegabile che la pandemia ha stravolto le nostre vite. Le tecnologie digitali hanno reso possibile analizzare questo momento storico, traendo alcune conclusioni positive. In risposta alle numerose misure restrittive applicate per contrastare il virus, è avvenuta in molti paesi un’accelerazione incredibile dello sviluppo delle tecnologie, agevolando la comunicazione a distanza. In generale è cambiato l’approccio alla tecnologia per molti di noi. Si è verificato un maggiore sviluppo, quindi , dell’infrastruttura tecnologica, ma il fatto più considerevole è che è cambiata la percezione sociale di ognuno di noi nei confronti dell’innovazione e delle tecnologie digitali. Le limitazioni che le disposizioni di Governo ci hanno imposto, hanno riguardato in misura consistente gli spostamenti, di conseguenza l’interazione dal vivo con l’altro. A livello sociale, questo ci ha portati a rivedere in toto le possibilità di entrare in contatto diretto con le altre persone e perció abbiamo sviluppato tutti, in misura differente, maggior consapevolezza circa l’utilizzo delle nuove tecnologie. I “nativi digitali”, in questo contesto, hanno avuto meno difficoltà ad adattarsi rispetto alle generazioni passate, ma, comunque, abbiamo assistito ad un fenomeno di accettazione del paradigma tecnologico, ampiamente condiviso.

Una digitalizzazione accelerata

La convergenza delle società verso la digitalizzazione esisteva già prima della diffusione del virus, ma la pandemia ha ridotto notevolmente i tempi. Internet e le nuove tecnologie digitali, sono stati il maggior strumento di resilienza adottato per cercare di contrastare le difficoltà, nel corso dell’ultimo anno. Ovviamente anche nel mondo del lavoro abbiamo assistito ad una transizione incredibilmente repentina. Per non restare indietro e rischiare il fallimento, tutte le aziende, dalle multinazionali alle piccole imprese,  si sono dovute rapidamente adattare al cambiamento, soprattutto quelle che faticavano nella transizione al digitale. In questo contesto ci sono stati Paesi che hanno avuto più difficoltà di altri, perché erano ancora ad un livello di digitalizzazione basso. Ma, forse, è proprio questa la giusta chiave di lettura da cui trarre beneficio. A livello istituzionale, le tecnologie digitali, durante la pandemia hanno permesso di colmare il divario tra i paesi più sviluppati e quelli che erano rimasti ancora indietro, contribuendo alla digitalizzazione della Pubblica Amministrazione.

Il panorama italiano

Il caso dell’Italia è un esempio di paese che si sta muovendo molto sulla digitalizzazione della PA, ma che ancora fatica a trasmettere alla società il cambiamento. Il nostro Paese si posiziona 18° posto per la capacità della PA di sfruttare le potenzialità offerte dall’ICT con un valore (71%) in linea con la media europea (72% nell’UE a 27) e in crescita rispetto agli anni passati. Tuttavia, l’Italia si colloca all’ultimo posto in Europa per utilizzo dell’eGovernment: solo il 25% dei cittadini utilizza servizi digitali per interagire con la pubblica amministrazione, contro una media europea del 60%.

Enrico Giovannini, portavoce dell’ASviS durante lo scorso Festival dello Sviluppo Sostenibile si è espresso specificando la sua posizione nei confronti del nostro Paese, riguardo il raggiungimento dell’SDG numero 9. 

Nel suo intervento, Giovannini si è espresso riguardo il processo di digitalizzazione della PA: “Oltre a discutere di sviluppo infrastrutturale, tecnologico, territoriale, c’è infatti la necessità di considerare “un’innovazione sociale”, concetto in Italia non ancora consolidato. “Non c’è innovazione vera senza innovazione sociale” ricorda Giovannini, “non solo perché la tecnologia ha modificato radicalmente le interazioni, ma perché questo sta cambiando profondamente la società”.

Obiettivo lavoro dignitoso e crescita economica: cosa si può cambiare?

Covid-19 e lavoro

Se c’è una cosa su cui la pandemia di Covid-19 ci fa riflettere è sicuramente il lavoro: c’è chi l’ha perso; chi l’ha mantenuto con difficoltà; chi ancora oggi ha la possibilità di lavorare e di far lavorare in smart working. Ma non tutti, come è evidente, hanno la possibilità di farlo, perché o è  il lavoro stesso a non permetterlo, come tutti i lavori manuali, o perché è il lavoratore che non ha a disposizione un computer o una connessione internet. Migliaia di persone sono state mandate a casa con la promessa della cassa integrazione. Alcuni ristoranti e bar hanno chiuso definitivamente. L’emergenza sanitaria ha messo sotto i riflettori una macchina che, forse, non funziona più molto bene.

Crescita economica e sviluppo non sono la stessa cosa

L’obiettivo numero 8 dell’Agenda 2030 è esplicitamente quello di garantire una crescita economica duratura. Ma cosa si intende per crescita economica? È un concetto economico che misura la produzione crescente di beni e servizi di una collettività. Si suppone che debba essere sempre in crescita per far fronte al continuo aumento dei bisogni della collettività stessa. Lo sviluppo è invece un miglioramento della qualità della vita, accompagnato da una migliore distribuzione del reddito. Inizialmente anche la nozione di sviluppo era caratterizzata da aspetti puramente economici, ma con il tempo si è allargata, arrivando a comprendere anche aspetti sociali ed economici, come ad esempio i diritti politici e quelli civili. 

Anche se sentiamo spesso la parola sviluppo solo in relazione ai paesi “in via di sviluppo”, anche per gli altri bisognerebbe iniziare a ragionare in termini di sviluppo e non di crescita. Richard Wilkinson e Kate Pickett hanno svolto una ricerca in tutti i principali Paesi sviluppati, pubblicata nel libro La misura dell’anima. Perché le diseguaglianze rendono le società più infelici (Milano, Feltrinelli, 2009). Wilkinson e Pickett hanno dimostrato che società più eque registrano prestazioni migliori in termini di speranza di vita, mobilità sociale e alfabetizzazione. Società diseguali, invece, registrano prestazioni peggiori in termini di malessere sociale, incidenza di malattie mentali, obesità.

Lo sviluppo è, quindi, un concetto più ampio della crescita economica. Se vogliamo davvero cambiare le cose per il meglio, non dobbiamo basare le scelte politiche su fattori unicamente economici. 

La dittatura del PIL

Il Prodotto Interno Lordo è l’indice su cui da decenni i Paesi, e le loro politiche, si basano per misurare il grado di benessere di un paese. Più il PIL è alto e più in quel Paese si vive bene. Ma è veramente così? 

Il PIL misura il valore totale dei beni e dei servizi prodotti in un anno. Dunque, non ci dice niente quindi sullo sviluppo, sulla prosperità o sulla sostenibilità. L’economista considerato l’inventore del PIL, Simon Kuzners, nel 1934 dichiarò al Senato statunitense che “il benessere di una nazione può difficilmente essere dedotto da una misurazione del reddito nazionale”. Robert Kennedy, politico statunitense e fratello di John Fitzgerald Kennedy, nel 1968, dichiarò all’Università del Kansas che il PIL “misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta”. Kennedy sottolineava il fatto che nel calderone dei beni e dei servizi finiscono anche i costi delle ambulanze o le pubblicità delle sigarette. Il valore cresce anche con la produzione di missili, testate nucleari o armamenti che la polizia usa per sedare le rivolte. 

Martha Nussbaum, filosofa e accademica statunitense, ragiona per assurdo: anche se volessimo misurare la qualità della vita solo in termini monetari, il Prodotto Interno Lordo non è comunque la scelta più consona. Sarebbe più efficace, ad esempio, misurare il reddito familiare medio. Inoltre, insiste Nussbaum, il PIL non tiene conto degli aspetti distribuitivi della ricchezza. In questo modo una nazione con un PIL molto alto potrebbe essere caratterizzata da enormi diseguaglianze. 

Dovremmo, quindi, iniziare a misurare non la produzione, ma il benessere, inteso come un insieme di risorse naturali, salute, istruzione, lavoro, equità, sicurezza economica e capitale umano, sociale e fisico.

Lavoro minorile

Per produrre di più con costi sempre più bassi ci si spinge a conseguenze impensabili: arrivare anche a sfruttare i bambini. Per lavoro minorile si intende un lavoro a cui sono sottoposti minorenni in condizioni di semi prigionia, che li priva di ogni forma di libertà e diritto allo studio, con gravi danni sullo sviluppo psico-fisico. Le ragioni le conosciamo benissimo: i minorenni hanno un costo di manodopera molto ridotto e non hanno bisogno di stipulare nessun tipo di contratto. Non è una novità l’elevato uso di minorenni in ambienti come quello della moda, per fabbricare prodotti da esportare in tutto il mondo. Secondo Save The Children sono 152 milioni i minori tra i 5 e i 17 anni vittime di sfruttamento (dati del 2019). Ancora una volta è l’Africa a riportare i dati peggiori: qui lavorano 72 milioni di minori. Come spiegavamo qualche articolo fa, i Paesi più poveri hanno una popolazione meno istruita. I bambini, spesso, non vanno a scuola per dover lavorare e, non avendo studiato, non hanno altro possibilità che continuare a fare lavori poco dignitosi. È un circolo vizioso difficile da rompere.  Seppur negli ultimi venti anni ci sono stati dei progressi, dice Save The Children, siamo ancora molto lontani dall’obiettivo dell’Agenda 2030: entro il 2025 dovremmo, infatti, porre fine al lavoro minorile in tutte le sue forme, ma se continuiamo così, tra quattro anni ci saranno ancora 121 milioni di minorenni sfruttati.

Per approfondire: