Analfabetismo digitale: la vera chiave della non inclusione

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Chi non sa usare le potenzialità della rete e degli strumenti digitali non è ammesso alla vita nella società 2.0 contemporanea.

La frase sopra è una stilettata violenta, ma ben vicina alla realtà di oggi: l’analfabetismo digitale è guaio più grosso di quanto sembri, anche per chi è giovane e viene definito nativo digitale, perlomeno se è nato nei paesi economicamente più sviluppati.

Parlare di questo argomento in un contenuto pubblicato su Internet può suonare curioso. Chi si prenderà la briga di gettare un’occhiata a questo articolo lo farà da un device digitale, che probabilmente usa tutti i giorni e che quindi sa, certamente utilizzare al top. Anzi sarà giunto in questo luogo passando per un link in bio o tramite una storia di Instagram: perciò, doppio colpo. Know how anche dei social!

Help!

Siamo nel 2022 e ormai da due stagioni, video call, download di documenti e registrazioni su siti vari sono diventati di colpo necesse est (anzi, sunt: plurale) per tenere i contatti con altre persone.

I dati del rapporto DESI (Digital Economy and Society Index) 2020, quindi pre pandemia, collocano l’Italia alla posizione 28 su 28 tra gli stati dell’Unione Europea (compresa, ancora, la Gran Bretagna), nell’ambito delle competenze digitali (https://www.agendadigitale.eu/cittadinanza-digitale/alfabetizzazione-digitale-dopo-il-covid-e-necessaria-ecco-perche/). In Europa si viaggia a un’altra velocità. 

E nel mondo? Le statistiche dell’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) del 2019 inseriscono l’Italia al 27esimo posto su 29 paesi rilevati, davanti solo a Cile e Turchia e dietro oltre che a Giappone (1°), Olanda, Finlandia, Stati Uniti, Corea del Sud, Nuova Zelanda, Australia anche a nazioni europee come Lituania, Estonia e Slovenia (https://www.money.it/Classifica-paesi-piu-analfabeti-Italia-prima-in-Europa). Gli Stati Uniti, al contrario delle aspettative, non stazionano sul podio, ma sono solo al 19° posto.

In tutto questo, lasciando l’Italia e l’Europa, le Americhe, l’Asia e l’Oceania, c’è un continente come l’Africa, che è molto discontinuo e in cui in molte zone, soprattutto dell’area subsahariana, mancano non solo cibo, acqua e altri beni di prima necessità, ma pure le connessioni a Internet. Questo è un problema in prima battuta secondario rispetto a questioni alimentari, ma in prospettiva rappresenta il reale ritardo a lungo termine. Chi non si connette, non solo resta isolato dagli altri, ma chi arriva per primo non si ferma. Perciò, non basta avere accesso a Internet per saperlo usare davvero.

4 azioni base da fare con le tecnologie digitali

Per usare al massimo gli strumenti digitali dobbiamo innanzitutto, conoscere le operazioni di base. Queste valgono a prescindere dall’età. Ne vediamo insieme 4, ma la lista è ben più lunga:

  • cercare informazioni;
  • tenersi in contatto con altre persone;
  • acquistare online;
  • usufruire di contenuti e crearli.

La prima, come detto, è cercare informazioni su un motore di ricerca. Il più noto è Google, ma non è l’unico. Anzi in alcuni paesi non c’è proprio e lo sostituiscono altri, come Baidu in Cina. Fin qui tutto facile. Questi sistemi funzionano più o meno allo stesso modo, tramite le query, ossia le ricerche, abbiamo risposte praticamente su tutto.

Forse non tutti però utilizzano al massimo questo mezzo. Ad esempio, con i filtri si può cercare per tipo di documento o tramite immagini. Oppure fare una ricerca precisa usando le virgolette o anche escludere delle parole e tanto altro…

La seconda, tenersi in contatto con altre persone, si realizza con metodi vari, dalla posta elettronica ai social network, o con i vari Skype, Zoom, Microsoft Teams, Webex e Google Meet. Non maneggiare questi mezzi significa perdere facilmente i contatti con gli altri, quindi è necessario imparare ad usarli.

La terza, acquistare online, ti aiuta a trovare oggetti particolari, o a prenotare i biglietti per un evento culturale, spendendo molto meno tempo. Quando si usano i soldi però è necessario stare molto attenti a ciò che si fa. Tra i metodi di pagamento tradizionali che si possono usare ci sono carte di credito, di debito, prepagate, bonifici bancari o postali. I bonifici richiedono però qualche giorno di tempo in più. Un’altra possibilità, nata con la rete, sono veri e propri servizi che fanno da intermediario tra la banca e la tua carta, come PayPal o altri simili quali l’italiano Satispay. Un altro modo è il contrassegno, con cui paghi al momento in cui ricevi ciò che hai acquistato. Non tutti accettano però questo meccanismo e di solito ti costa qualcosa in più (https://www.hostingvirtuale.com/blog/quali-sono-i-migliori-metodi-di-pagamento-online-10015.html).

Un’accortezza importante è non dare informazioni personali, dati finanziari e altro online. Il rischio è il phishing (il termine è una variazione di fishing “pescare”), problematica che colpisce anche utenti di giovane età. Il phishing consiste in truffe realizzate principalmente cliccando su un link, che accompagna un messaggio via e-mail o SMS, il quale sembra inviato da un’organizzazione di cui ci si può fidare, come una banca oppure le poste. Il link rimanda a un falso sito che somiglia a quelli ufficiali e se inserisci i dati, puoi perdere i soldi sulle tue carte.

La quarta attività riguarda i contenuti. Youtube e i servizi di streaming facilitano enormemente l’accesso a immagini, canzoni, video e sono un ottimo luogo per imparare qualcosa. Magari a produrre noi stessi quei contenuti che tanto ci piacciono, lavoro molto più dispendioso di fare da spettatori. Già trovare le lezioni giuste è un ottimo primo passo per muoverci meglio, poi una cosa tira l’altra e sarà un piacere riuscire in qualcosa.

Bufala: una parola vecchia per un problema sempre più di oggi

Altra operazione è riconoscere, quando ci servono informazioni, se quello che troviamo è vero. Questo è un bel problema, le informazioni vanno verificate, serve l’attendibilità. È banale, ma non è per niente semplice sapere con certezza cos’è veramente attendibile su Internet. Non commentate su social o siti, se non siete sicuri davvero della fonte, pena il ritrovarsi in situazioni imbarazzanti. Se trovate comunicati su iniziative assurde del Comune di Bugliano, ricordatevi che non esiste!

Su questo vengono in aiuto i siti di debunking, che smascherano le cosiddette bufale, dette anche fake news. Qualche esempio? Bufale.net e Butac, solo per citarne due. 

Ma sapete da dove deriva l’uso della parola bufala in questo senso? Prova a spiegarlo l’Accademia della Crusca (https://www.google.com/amp/s/www.linkiesta.it/2017/04/perche-le-fake-news-si-chiamano-bufale-risponde-la-crusca/amp/).

Per Tullio De Mauro deriva dal romanesco e viene attestato nel 1960. Secondo Paolo d’Achille è invece colpa dell’attore ciociaro Nino Manfredi, in uno schetch a Canzonissima del 1959, nel quale spiegava che dei ristoratori romani spacciavano la carne di bufala al posto di quella più pregiata di vitella. Un’altra attestazione del 1956, nel romanzo Un amore a Roma di Ercole Patti, la ribadisce ancora al romanesco, usata per riferirsi a un film brutto. 

Secondo un’altra ricerca, le donne degli anni ‘40 portavano scarpe con la suola in pelle di bufala, meno costosa del cuoio. Quando pioveva capitavano incidenti e negli ospedali, ogni volta che arrivavano le vittime di queste calzature, si soleva dire “Ecco un’altra bufala!”. Da qui si sarebbe passati a sinonimo di fregatura, e poi sia a quello di prodotto cinematografico di basso livello, che a quello di notizia falsa. 

Attenzione poi, sempre in tema di falsi, anche i deep fake! Video con attori che si muovono e imitano la voce di altri personaggi e che grazie all’intelligenza artificiale, sembrano assumere l’aspetto estetico di politici e celebrità varie. Questo fenomeno, di questi tempi, potrebbe diventare molto pericoloso!

Il mondo è già digitale

Qui abbiamo fatto un piccolo giro sul mondo digitale, senza entrare troppo nel dettaglio, compito che spetta agli informatici. Però, come abbiamo visto, volente o nolente, non si può fare a meno di queste innovazioni, che modificano il modo di pensare. Già a molti servizi vitali si accede solo esclusivamente online (basti pensare all’iscrizione ad una scuola) ed è importante che tutti abbiano la possibilità di sapere usare questi mezzi. Il digitale non è un plus, è già realtà, ma non è mai troppo tardi per mettersi in pari. 

Secondo molti, per alfabetizzare il mondo digitalmente ci serve solo un nuovo maestro Manzi, colui che aiutò gli italiani a scrivere e a leggere nella televisione degli anni ‘60. Ma in realtà ce ne sono molti di insegnanti, basta sforzarsi un po’ e avere la curiosità di capire come si muove il mondo.

Intelligenze Artificiali e Comunicazione: Ieri, oggi e domani.

Parte prima: Inizio di un fenomeno, dagli anni ‘80, fino agli inizi del XXI secolo.


Salve a tutti e benvenuti a questa nuova rubrica mensile in 3 parti, dedicata, come avrete già letto nel titolo, alle Intelligenze Artificiali e al loro utilizzo nel settore comunicativo. Più nello specifico, andremo a scoprire come le I.A. siano diventate, in questi ultimi anni, un topic principale negli sviluppi tecnologici e scientifici, nonché uno strumento di uso comune nella nostra vita quotidiana e nella comunicazione di tutti i giorni, dagli assistenti virtuali come Cortana o Alexa, alle case domotiche, fino ad arrivare ai robot e ai sistemi automatizzati delle grandi industrie, passando dalla storia recente, ai traguardi raggiunti, per finire con uno sguardo su quello che ci attende nei prossimi anni e come un settore, in forte crescita, possa migliorare i processi comunicativi, non solo tra uomo e macchina, ma anche in comunicazioni uomo-macchina-uomo e tra macchina e macchina.

In questa parte, parleremo brevemente di come le I.A. si siano evolute, a partire dagli anni ‘80, fino ai giorni nostri passando per i punti chiave che hanno definito la nascita di questo settore rivoluzionario e che ancora ha molto da farci vedere. 


Introduciamo le Intelligenze Artificiali.

Non possiamo iniziare a parlare di I.A., senza prima aver capito da dove proviene il termine stesso e, per capirlo, dobbiamo fare un salto indietro nel tempo, fino al 1956, quando si svolse il seminario estivo presso il Dartmouth College di Hanover, nel New Hampshire, dove il matematico John McCarthy, basandosi su numerosi contributi, raccolti negli anni precedenti, che spaziano dal famoso Test di Turing, ideato da Alan Turing nel suo saggio Computing Machinery and Intelligence, del 1950, dove si testava l’intelligenza di una macchina, rispetto a quella umana, fino a Norbert Wiener e alla sua Cibernetica (disciplina che si occupa dello studio sistematico dei processi riguardanti la comunicazione e il controllo, sia negli animali che nelle macchine), introdotta nel 1946 e sviluppatasi fino al 1953, introducendo anche l’importanza, soprattutto a livello comunicativo, del “feedback” del quale parleremo molto più avanti, coniò il termine di “Intelligenza Artificiale”, non per indicare la singola macchina che pensa come un uomo, ma per dare il nome a una nuova disciplina di studi, il cui scopo era lo studio di ogni aspetto dell’apprendimento e delle caratteristiche dell’intelligenza, in modo tanto preciso da poter far sì che una macchina lo simuli; quindi era una disciplina più incentrata sullo studio dell’intelligenza che sullo sviluppo di macchine intelligenti, ma sarà di fondamentale importanza per la creazione delle I.A. che conosciamo adesso.

Infatti, almeno all’inizio, erano davvero in pochi quelli che pensavano a legare l’intelligenza alla macchina, in modo che potesse simulare il pensiero umano e, a parte un piccolo gruppo di ricercatori guidato da Allen Newell, Bernard Shaw e Herbert A. Simon, che basavano i loro studi sullo sviluppo di un elaboratore capace di simulare la risoluzione dei problemi come farebbe la mente umana, senza però, avere molto successo, la maggior parte degli studiosi cercò di usare il concetto di I.A. per lo sviluppo di programmi sempre più complessi e capaci di risolvere problemi di tipo matematico e di calcolo, sempre più velocemente, per alleggerire il carico di lavoro da parte dell’uomo, portando, negli anni ‘70, alla creazione dei primi “sistemi esperti”, ovvero sistemi dove si lega “la conoscenza […] a specifiche regole euristiche convalidate dall’esperienza” (Somalvico, Amigoni, Schiaffonati, 2003), dove un essere umano, esperto in un dato settore, affiancherà una I.A. per aiutarne lo sviluppo, la quale faciliterà, a sua volta, il suo lavoro.


Le prime Intelligenze Artificiali: i giochi degli anni ‘80 e la sfida contro l’uomo.

Gli anni ‘80 saranno dedicati alla creazione di numerosi programmi a scopo ludico, che si basassero su giochi classici, posti a test contro campioni umani in numerosi tornei a livello nazionale e internazionale, a partire dal gioco dell’Othello, che vedrà numerose iterazioni, dal 1979 fino al 1997, passando per il programma  “The Moor”, fino ad arrivare alla sconfitta del campione mondiale Takeshi Murakami, contro LOGISTELLO.

Altro gioco famoso a essere replicato sarà quello della Dama o Checkers, in inglese, dove il programma principale sarà “Chinook”, in sviluppo dal 1989 al 2007 da un team di programmatori dell’Università di Alberta, guidato da Jonathan Schaffer, che sarà causa di varie complicazioni, visto che il miglior giocatore di Dama di tutti i tempi, Maron Tinsley, si rifiuterà di partecipare ai mondiali a causa della classificazione al secondo posto di Chinook ai Nazionali degli USA, classificandosi ai mondiali di diritto; sarà allora che verrà creato il primo torneo Man vs Machine della storia, dove la macchina perse la prima volta contro Tinsley, nel 1992, per poi vincere nel 1994 a causa del suo ritiro per un tumore al pancreas, mentre un anno dopo, Don Lafferty, partecipante al posto di Tinsley, perderà per 1 a 0, dopo 31 pareggi, a cui seguirà il ritiro del programma dalle competizioni, ad opera dello stesso Schaffer, nel 1996.

Tuttavia, la sfida più importante e famosa tra uomo e macchina, avverrà a fine anni ‘90, con Garry Kasparov, campione mondiale di Scacchi e il computer Deep Blue dell’IBM, quando, dopo una cocente sconfitta nel 1996 contro il campione, nel 1997, ottenne la vittoria, con lo sconvolgimento generale di tutti, soprattutto del campione, che accusò IBM di aver imbrogliato, accuse che non troveranno mai risposta, anche a causa dello smantellamento di Deep Blue e alla mancata presentazione dei tabulati a Kasparov, facendo sorgere varie teorie e speculazioni al riguardo, come quella che fosse stato un bug a far vincere la macchina, creando una mossa illogica che aveva confuso il campione, pensando adottasse una strategia diversa.


Un nuovo obiettivo: comunicare con le macchine per risolvere i problemi.

Tutto questo per capire che, almeno inizialmente, le I.A. erano considerate semplici programmi, basate sulla potenza di calcolo dei processori e sulla potenza dei computer di quegli anni, capaci di risolvere calcoli e operazioni complesse in poco tempo, rispetto alla controparte umana e, sebbene abbiano dimostrato di evolversi rapidamente nel corso degli anni ‘80 e ‘90, avevano un focus molto limitato sulla comunicazione, basandosi su un modello unidirezionale, da uomo a macchina, dove il primo comunica alla seconda solo per ottenere il miglior risultato, nel miglior tempo possibile, correggendone gli eventuali errori, visto che le macchine non erano in grado di trovare una soluzione da sole, senza l’aiuto umano, ma sarà proprio da questo modello che nasceranno le prime I.A. e dal quale si evolveranno, per arrivare a risolvere da sole i vari problemi a cui verranno sottoposte e sarà l’inizio di un nuovo capitolo nel campo della comunicazione, come vedremo nella seconda parte di questa rubrica, basata sulle conquiste recenti e di come la comunicazione giochi un ruolo chiave nello sviluppo delle I.A..

Perché creiamo meme (persino) sulla guerra?

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È il 24 Febbraio 2022 quando mi svegliano delle parole mormorate dall’altro lato della casa: “Putin ha invaso l’Ucraina/ hanno lanciato missili su Kiev”.

Assimilo la notizia con un nodo alla gola ma in realtà digerivo il tutto da almeno un mese, fin dalle prime minacce e dai primi telegiornali ma in particolare modo dai meme, perché erano il mezzo che mi creava meno ansia e che mi permetteva di restare lucida pur informandomi. 

Nel giro di tre settimane ho però visto l’attenzione e i trend cambiare da Sanremo alla guerra e mi sono chiesta, è davvero giusto creare meme persino su quest’ultima? Con la stessa leggerezza con cui li avevo visti creare su un festival della musica fino a poco tempo fa? 

E’ davvero giusto usare i meme, l’ironia, le battute, anche quelle più nere, per scrollarci di dosso la paura, i traumi? 

Un meme nasce come prodotto umoristico da produrre e (ri)condividere sul web ma negli ultimi vent’anni questo concetto si è evoluto passando dalla semplice battuta ad un qualcosa di più assurdo, parodico, spesso dark humoristico. 

L’umorismo dark è uno stile di commedia che ha come temi soggetti generalmente considerati tabù o particolarmente sensibili nell’immaginario collettivo comune, normalmente troppo seri o dolorosi da affrontare. 

Il senso dell’umorismo ha una forza che distrugge e ricostruisce nello stesso istante, quasi non sentiamo i fragori di questo lavoro perché li copriamo con la risata. Il riso sdrammatizza, toglie il disumano e il negativo alla cosa, è un atto creativo e liberatorio.

Tutti i meme sono scherzi ma alcuni ironizzano su traumi, eventi catastrofici, argomenti sensibili, ritenuti appunto troppo “dark” per poterci scherzare, come può essere la guerra con tutte le sue conseguenze.


Esempi di umorismo sul web

Prima che l’Ucraina fosse invasa migliaia di account da tutto il mondo si radunavano sotto profili (non ufficiali) di Vladimir Putin per chiedergli di ripensarci, alcuni lo chiamavano ironicamente “papà”. E’ una presa di posizione portata avanti con ironia ma resta una reazione umoristica ad un evento che iniziava a generare ansia e preoccupazione. 

È stato solo quando ho visto gli stessi Ucraini usare l’ironia su quanto successo che hanno preso valore le parole di Meghan Mobbs per Psychology Today, “il dark humor tratta argomenti preoccupanti e disturbanti con leggerezza e senso di divertimento”.

In questo modo il dark humor mostra quanto assurda o illogica sia una situazione utilizzando il mezzo del meme, dello scherzare su situazioni serie: scherzare su qualcosa, qualsiasi essa sia, rende l’oggetto dello scherzo meno gravoso sulla nostra mente. 

L’humor ci permette di essere più resilienti: nei primi giorni di conflitto il profilo Twitter ufficiale dell’Ucraina contava sull’appoggio del web occidentale e per tirarlo a sé ha usato meme, come: 

Secondo Nicholas A. Kuiper dell’Europe’s Journal of Psychology, l’humor può avere un ruolo agevolativo in situazioni estremamente traumatiche e può persino essere un metodo di adattamento per sopravvivere.  

In questo senso l’humor permette di riprendere il controllo sulle emozioni, poter sorridere di fronte a questi eventi restituisce un senso di controllo sulle nostre reazioni emotive. 

Gli psicologi ritengono l’humor un meccanismo di difesa, ad esempio la psicologa Nancy Irwin ritiene che l’humor sia uno dei migliori meccanismi per affrontare il dolore.

Persino i filosofi greci Platone e Aristotele credevano che l’humor fosse un mezzo dell’uomo per rialzarsi dopo un down emotivo o fisico, Aristotele stesso in uno degli scritti perduti, sosteneva il riso come strumento di verità. 

In questa prima “guerra social” l’humor può ancor di più creare “comunità” senza minimizzare il trauma che il popolo ucraino vive: il patto tra creator e spettatore è quello di un reciproco voler fare esperienza, demistificando il trauma di ciò che vediamo e ascoltiamo.

È il caso di alcuni creator su TikTok che filmano la propria realtà in pochi secondi, alcuni restituendo anche un senso di positività o normalità nel caos temporaneo che vivono, perché infatti, come dimostrano due nuovi studi dello Stanford Psychophysiology Laboratory, di fronte a immagini di conflitto, situazioni di stress e caos, la commedia è una strategia adattativa molto più efficace del vivere gli eventi con gravità e riservatezza, l’umorismo ottimista diventa più efficace del cinismo. 

(https://news.stanford.edu/news/2011/august/humor-coping-horror-080111.html)

La fotografa ucraina @Valerisssh ha documentato sulla piattaforma di TikTok l’invasione russa creando brevi video in cui informava giorno per giorno delle novità nella sua città, nel suo bunker, condividendo piccole gioie, ironizzando sul panorama urbanistico che dopo i bombardamenti non riconosce più; piccole personalità diventano così testimoni di guerra, tanto che la fotografa è stata chiamata per riportare la sua esperienza da varie testate giornalistiche e canali televisivi, fino ad approdare a Milano, dove sarà ospitata per 6 mesi dalla famiglia della celebre youtuber e scrittrice Sofia Viscardi. https://vm.tiktok.com/ZMLfrjss4

Femminismo e pari opportunità: a che punto siamo davvero?

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“Alza il capo donna. Sei una guerriera che non si arrende.”

(L. Del Grande)

Siamo da poco entrati nel 2022 e ancora ci chiediamo se la parità di genere sia una realtà ormai consolidata o se la strada da percorrere sia ancora lunga e tortuosa. In tutto questo, è interessante valutare il ruolo del femminismo e gli obiettivi sociali che la società moderna sta cercando di perseguire per una maggiore uguaglianza ed equità tra i sessi.  


Una storia di obiettivi da raggiungere ed estremizzazioni

La tematica del femminismo è ormai alla portata di chiunque e molto spesso il fraintendimento riguardo ciò a cui il termine realmente si riferisce è la prima vera, preoccupante minaccia.

Facendo una breve precisazione sappiamo che la locuzione “féminisme” risale al 1837, anno in cui il socialista Charles Fourier ebbe la brillante idea di coniarlo.

Da allora le ondate femministe furono continue e gli obiettivi sociali raggiunti furono senz’altro straordinariamente importanti in particolar modo a partire dalla metà del Novecento, quando il movimento femminista diventò “stendardo” di uguaglianza e parità di genere.

Sia negli Stati Uniti, che in Italia, già a partire dagli anni ’60 del secolo scorso iniziarono a prendere forma le prime grandi manifestazioni di massa che, come obiettivo principale, rivendicavano diritti delle donne ancora negati (quali il divorzio e l’aborto tra i più famosi).

Oggi ci sono molte figure che si attivano per affermare la presenza femminile in tutti i settori, dando seguito alla ormai quarta ondata di quel movimento che chiamiamo femminismo. 

Sì, siamo già arrivati a quattro momenti. In breve, vi riproponiamo un piccolo riassunto delle varie fasi (https://www.iodonna.it/attualita/costume-e-societa/2021/06/07/femministe-social-femminismo-online/ ): 

  • la prima è quella che coinvolse le suffragette per ottenere il diritto di voto
  • la seconda si attivò negli anni ’60 per i diritti civili
  • la terza negli anni ‘90 per combattere il divario salariale,
  • La quarta, del femminismo intersezionale è quella attuale, del 2022.

L’ondata di oggi ha affiancato alla parola femminismo, l’aggettivo intersezionale. Intersezionale sta a significare che porta avanti battaglie che si intersecano, in quanto vi sono più forme di oppressione; ad esempio, una donna che nasce in un contesto disagiato o è straniera incontra ancora più difficoltà. Questo aspetto genera una grande confusione in quanto inserisce nuove specificazioni e dinamiche rispetto a quelle più generiche introdotte dagli attivisti delle ondate precedenti. In più, si smette di considerare solo il genere biologico (quello con cui si nasce), che separa nettamente i maschi dalle femmine, lasciando spazio all’idea di fluidità. Finora abbiamo parlato di ondate, che sono progressivamente divenute sempre più caotiche, fino alla complessità odierna, che è del resto la normalità. Spiegarla e capirla, però, non è affatto semplice.

Bisogna ricordare che il malinteso che spesso si crea tra quel tipo di femminismo pro-uguaglianza e ciò che viene definito “nazifemminismo”, è il risultato di un’estremizzazione del termine dovuta al tentativo (da parte di coloro che si sentono fortemente femministe) di sottolineare, in misura maggiore, la predominanza del sesso femminile su quello opposto.

Inutile dire che questa polarizzazione del termine è quanto di più sbagliato possa esistere e ciò che in realtà si allontana profondamente dal reale concetto del femminismo nella sua pura accezione.

Tuttavia, ciò che interessa davvero capire quando ci si trova di fronte alla tematica “Femminismo e pari opportunità” (sebbene ci siano molte ragioni da indagare dietro ciò che alimenta il nazi-femminismo) è il perché ancora oggi, nel XXI secolo, si senta discutere su disparità salariali, disuguaglianze di genere, divario sociale e culturale tra i sessi. 

Indubbiamente questo tipo di argomentazione rappresenta il peggior fallimento di una società, come quella occidentale (evoluta, progressiva e progressista, solidale, emancipata) che si propone il raggiungimento di obiettivi sociali egualitari, ma perde miseramente nella lotta “a chi discrimina meglio vince”.

In questo caso le possibili forme di discriminazione a cui ci si riferisce riguardano, nello specifico dell’ambito europeo, le disparità (https://europa.eu/youth/get-involved/your-rights-and-inclusion/womens-rights-gender-equality-reality-europe_it) retributive, culturali e sociali che colpiscono in primo luogo le lavoratrici, le artiste, le leader, le ricercatrici e scienziate, le madri, le operaie: in UE le donne guadagnano ben il 16% in meno di un collega uomo; solo il 7,7% dei presidenti dei consigli di amministrazione è donna; il 33% delle donne ha subito almeno una volta nella vita violenza fisica e psicologica.

(Photo by Matt Hardy on Unsplash)


La Rai (delle donne) spinge per la parità tra i sessi

È notizia recente (18 gennaio 2022) il patto No Women No Panel – Senza Donne Non se Ne Parla, promosso dalla Rai e sottoscritto dalla Presidenza del Consiglio. Prime firmatarie due donne: la presidente di Viale Mazzini, Marinella Soldi e la ministra per le Pari opportunità e la famiglia, Elena Bonetti. L’accordo prevede parità di rappresentanza tra donne e uomini in dibattiti e talk show su radio e tv pubblica (https://www.ansa.it/canale_lifestyle/notizie/societa_diritti/2022/01/18/no-women-no-panel-patto-in-rai-per-la-parita-di-genere-in-dibattiti-e-trasmissioni-tv_abe4bc0e-220c-4c8c-ba7b-0995cd873219.html ).

I dati europei, come abbiamo già visto, non sono molto edificanti per il nostro paese: l’Italia, infatti, è solo quattordicesima su ventisette paesi per uguaglianza di genere.

La presidente Rai Soldi afferma che la presenza femminile nella programmazione Rai è pari solo al 37%, con un’aggiunta: è diverso il “peso”. Le donne non vengono chiamate, infatti, per via delle loro competenze, ma soprattutto per raccontare storie personali.

Questo è solo l’esempio più recente di documento nato per incentivare la parità di genere, ancora una volta sostenuto fortemente da donne, come da tradizione del mondo femminista.


Una questione da uomini

In questo quadro complicato è lecito notare come fino ad ora si sia parlato praticamente solo di donne che si interessano di altre donne. È necessario che gli uomini siano anche loro attivisti o devono essere esclusi perché semplicemente loro “non possono capire”?

I femministi maschi esistono, quindi? La risposta è sì e se ne può citare uno italiano. Lorenzo Gasparrini, scrittore e filosofo romano, ha dedicato ben 4 libri all’argomento, l’ultimo “Perché il femminismo serve anche agli uomini” (2020). Oltre a questi testi ha partecipato anche a vari laboratori, seminari e incontri in università, aziende, scuole, centri sociali, indirizzati principalmente a ragazzi e uomini.

I ragazzi hanno, infatti, un ruolo fondamentale nel cambiamento culturale di una società che è di fatto storicamente patriarcale. Femminismo è poi un termine inventato da un uomo, come abbiamo introdotto all’inizio. È arrivato decisamente il momento di muoversi tutti nella stessa direzione.


Prospettive per un futuro realmente 1 a 1

Per concludere il nostro discorso, cosa possiamo fare concretamente per raggiungere il traguardo finale dell’uguaglianza tra generi? Proseguire fianco a fianco, smettendo di contrapporsi senza rinegoziare le nostre posizioni e idee di partenza. Gli strumenti possono essere la cara e vecchia arma del dialogo e il gioco della conoscenza tra persone. Andare alla scoperta delle differenze che ci sono tra ognuno di noi, inteso in quanto essere umano, e quindi portatore di pregi, ma anche di grandi difetti (ammettiamolo), è un’affascinante avventura ed anche il vero modo per conoscersi e crescere, insieme.

(Photo by Tim Mossholder on Unsplash)

Articolo di Alessia Cecconi, Arianna Modafferi

Uiguri e Cina: una notizia che non fa notizia

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Al giorno d’oggi sono tante le notizie che si affollano su tutti i mezzi di comunicazione. Possono essere notizie di ogni genere, da cruenti fatti di cronaca a Amadeus che bussa alla porta di Fiorello il giorno prima che inizi il Festival di Sanremo. Una cosa che però tutte hanno in comune è che rimangono notizie fino a quando fanno notizia. Ne è un chiaro esempio l’ormai interminabile rassegna di fatti che abbiamo ogni giorno per quanto riguardo l’emergenza sanitaria di Covid19. Da due anni ormai viviamo in una pandemia, e da due anni non sentiamo parlare d’altro. Chiaramente i giornali e affini di qualcosa devono campare, volgarmente parlando: è nei loro interessi quindi darci notizie che possono incontrare un pubblico ampio. Spesso capita quindi che il telegiornale, per fare un esempio, ci racconti una storia che incontra il suo pubblico ma poi, con il passare dei giorni e delle settimane, arriva una storia più attuale, più avvincente, che fa più notizia. A quel punto la prima storia viene abbandonata, nessuno se ne interessa più. Il pubblico non sa come è andata a finire ma nemmeno gli interessa perché se n’è già dimenticato.

 


Chi sono gli uiguri?

In questo universo di storie, ce n’è una che fa notizia di tanto in tanto, e neanche in modo troppo eclatante. Sto parlando della situazione del popolo degli uiguri, minoranza etnica e religiosa della regione cinese dello Xinjiang. Anche io, vittima delle logiche di cui vi ho detto sopra, non ero a conoscenza dei fatti prima di settembre 2020. All’epoca uscì il live action Mulan firmato Disney, film molto atteso che ha generato molti guadagni nonostante la pandemia. Due giorni dopo l’uscita del film, ci si accorse che nei titoli di coda venivano ringraziate le agenzie governative operanti proprio nella regione dello Xinjiang. L’hashtag #BoycottMulan spopolò su Twitter e, vedendolo in tendenza, decisi di capire che cosa stesse succedendo, dato che avevo appena visto il film. Venni così a conoscenza del fatto che il popolo degli uiguri viene ormai da diversi anni perseguitato dal governo centrale cinese. Ma la cosa che mi fece più ribrezzo è che sono stati costruiti dei campi di concentramento, in cui gli uiguri vengono rinchiusi e sottoposti a torture di ogni genere. Il popolo degli uiguri ha sempre cercato di opporsi al potere centrale cinese, manifestando il proprio dissenso anche con atti violenti. L’attuale situazione ha iniziato a precipitare dopo una serie di rivolte violente scoppiate nel 2009 a Urumqi, capitale della Regione. Lo scopo non è quello di ucciderli, ma di estirpare la loro cultura musulmana, ritenuta un pericolo dal governo cinese. Rimasi scioccata dall’entità della notizia e dal fatto che non ne avessi mai sentito parlare. Non intendo dire che sono a conoscenza di ogni fatto accaduto alla storia dell’umanità è che quindi, non sapere di questa notizia, sia per me uno shock. Ma mi ha sorpreso che una notizia del genere non fosse sulla bocca di tutti, su ogni prima pagina dei giornali. Poi mi sono resa conto che se non è stato fatto una motivazione ci sarà. Il motivo è che è una notizia che non fa notizia, almeno che non succeda qualcosa di eclatante come la più grande compagnia cinematografica al mondo che produce un film sul suolo di un genocidio culturale.

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“Day by day

Questa lunga introduzione per dire che la rubrica “Day by day” nasce dall’idea di raccontare una storia che non viene ascoltata e spesso viene dimenticata. Il colore della rubrica si ispira alla bandiera del popolo degli uiguri, che potete vedere nella prima immagine di questo articolo. Nasce dall’idea che, se teniamo il pubblico aggiornato su questa storia, allora forse più persone ne verranno a conoscenza. Ma, soprattutto, spero che più persone possibili si possano appassionare a questa storia come è capitato a me. Purtroppo ad oggi non c’è molto che possiamo fare per cambiare la situazione degli uiguri (almeno che non siate il/la presidente di una nazione, in quel caso il discorso cambia). Una delle poche cose che possiamo fare, e che mi impegno a fare, è una delle azioni più antiche del mondo: il passaparola. Se, come abbiamo detto all’inizio, vengono pubblicate le notizie che fanno notizia, allora cerchiamo di far diventare la storia degli uiguri una notizia che fa notizia. E questo si può fare soltanto parlandone: tra di noi, tra di voi, sulle piattaforme social, sui blog, a scuola, a lavoro, anche per lettera va bene. Un giorno la parola potrebbe arrivare alle più importanti testate giornalistiche e potrebbero pensare che, se la gente ne parla, allora tanto vale parlarne sul giornale. Sono consapevole del fatto che sia un obiettivo difficile, forse irrealizzabile. Nel mio piccolo, insieme alla redazione di SecopLab, vi aggiornerò sui fatti più importanti riguardanti la vicenda giorno dopo giorno. Vi avverto che non sempre avrò qualche novità da comunicarvi. Le notizie che arrivano, come potete immaginare, non sono molte. La Cina ha un controllo dell’informazione molto stringente. Nessun giornalista ha ancora avuto il permesso di poter visitare lo Xinjiang per riferire la situazione. Tutto quello che abbiamo, ed è poco, arriva o da qualche fuga di notizie o da testimonianze di internati che sono riusciti a lasciare la Cina. Nel caso in cui non ci siano novità, vi racconterò di vicende che sono già successe, cercando di essere sempre il più precisa e puntuale possibile. Scusandomi già in anticipo per qualsiasi imprecisione del caso, vi saluto. Alla prossima puntata di Day by day. 


Per approfondire e sostenere la causa: https://www.saveuighur.org/

È stata la mano di Dio: l’ultimo capolavoro firmato Paolo Sorrentino

culture 04

Che Paolo Sorrentino abbia un rapporto particolare con la sua terra lo sapevamo più o meno tutti: dalla sua partenza, infatti, il regista non era mai più tornato a girare nella sua terra natia. Una scelta dettata non da una separazione volontaria, ma necessaria. Il film, oltre che rappresentare un omaggio a Napoli, si trasforma in un momento di catarsi tra il regista e il suo passato. Un tributo alla sua città che va oltre i legami, oltre la nostalgia, oltre l’amore. È stata la mano di Dio rappresenta l’intima confessione del regista premio Oscar, un viaggio nel tempo della sua giovinezza, attraverso le vie della Napoli anni ’80. 

Con questo film Sorrentino torna in parte alle origini de L’uomo in più, meno onirico e più asciutto. Non si può prescindere da questa pellicola se si vuole capire la filmografia e la storia personale del regista: in questo film c’è tutto il cinema di Sorrentino, tutta la sua storia e il suo dolore, interiorizzato, reso conscio e sublimato.

Immagine che contiene cielo, montagna, esterni, acqua

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Il film, prodotto da The Apartment e distribuito da Netflix, racconta l’adolescenza del protagonista Fabio Schisa, detto “Fabietto” ed alter ego di Sorrentino, e del suo legame con la famiglia, con la città e con la squadra di calcio partenopea ovviamente. L’arrivo di Maradona a Napoli, infatti, rappresenta l’evento che ribalta la vita di Fabietto e di tutta la città: El pibe de oro ha scelto Napoli e la città per questo lo trasformerà nel proprio salvatore. L’arrivo del calciatore argentino non rappresenta purtroppo l’unico evento che stravolgerà la vita del protagonista: a causa di un incidente nella seconda casa in montagna, i genitori perdono la vita. Fabietto si sarebbe dovuto trovare con loro in quel momento, ma aveva deciso di rimanere a Napoli perché quella domenica c’era la partita, e Maradona lo aspettava. La mano de dios lo ha salvato e ora si ritrova come bloccato in un limbo, troppo grande per cedere ad una disperazione infantile e troppo giovane per sostenere il peso dell’esistenza senza l’apporto fondamentale dei genitori. 

Così il cinema diventa l’unica via d’uscita, la ricerca di realtà nuove e alternative, la possibilità di creare mondi nuovi grazie alla narrazione; il confronto con Capuano (mentore di Sorrentino nella realtà) rappresenta il nuovo inizio: un dialogo feroce, crudo, e intenso sul cinema, sul coraggio e sulla ricerca dell’identità; proprio qui si compie il rituale più potente dell’intero film, quello che segna davvero le origini di Paolo Sorrentino. La sequenza percorre l’intera città, attraversando il centro di Napoli, passando per Mergellina per poi consegnarsi al mare. È il racconto della nascita, è la scoperta della vita, il passaggio da Fabietto a Fabio. Il cinema a quel punto diventa l’unica strada percorribile per riuscire a sopravvivere, creare e raccontare diventano le armi con cui combattere l’oblio.

Non è un film su Maradona

Immagine che contiene terra, esterni

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Nell’immagine uno dei luoghi commemorativi di Maradona a Napoli, in via De Deo nei quartieri spagnoli. (Credit: https://www.instagram.com/marco.costa_/ )


Il titolo evocativo potrebbe farvi confondere, quindi è giusto chiarire un punto: la pellicola di Sorrentino non è un film su Maradona. Indubbiamente Diego rappresenta una delle fondamenta del film e dell’anima di Napoli, quando si parla della città si parla del Dies e viceversa. Maradona ha rappresentato molte cose per Napoli: rivincita, rivoluzione, un bagliore di speranza che ha valicato i limiti del campo da gioco, riportando la dignità ad una città che veniva dal periodo buio post-terremoto del 1980. Un gigante che Sorrentino decide di lasciare sullo sfondo, perché rappresentare Diego in un film non è possibile (parola del regista). Maradona in questo film è come Dio: non c’è ma agisce. El dies è il motore intorno al quale ruota la storia e la vita dei personaggi, salva la vita a Napoli e ai napoletani solo perché gioca a calcio, salva la vita a Fabietto solo perché esiste; ne è convinto zio Alfredo, tanto da dire a Fabietto che “È stato lui, è stato lui che ti ha salvato. È stato lui, è stata la mano di dio”.

Tra Fellini e Capuano: un’ode ai maestri

Capire il cinema di Sorrentino vuol dire anche capire i suoi maestri e i suoi ispiratori. Più volte il regista ha ricordato quanto siano stati fondamentali i film di Federico Fellini nella sua formazione di regista, tanto da farlo essere presente in È stata la mano di Dio, intravisto da Fabietto ma significativamente lasciato fuoricampo; il debito verso il regista riminese risuona in tutto il film, dall’ingorgo iniziale che ricorda 8 ½, ai ritratti familiari di Amarcord fino anche alla Dolce Vita. Se Fellini viene solo evocato o ricordato, Antonio Capuano diventa una figura mitica, centrale, un idolo che aiuta Fabietto a diventare Fabio, lo aiuta a capire come si fa il cinema, lo aiuta a superare il lutto per la perdita dei genitori e lo rimanda a pensare a Napoli e alla sua anima come spinta alla narrazione.

Non ti disunire!

Tutto il film ci ricorda quanto sia raffinata la capacità di scrittura dei dialoghi di Sorrentino, sempre pungenti e mai banali, in un contrasto continuo tra allegoria e celebrazione; ma è nella scena finale che questa maestria esplode, nel confronto serrato da Fabietto e Capuano. Il dialogo rappresenta l’intima confessione del regista, sospesa tra il rimorso di aver abbandonato troppo presto Napoli e la speranza che, così facendo, avrebbe rifuggito il dolore. Infatti, Capuano, rivolgendosi a Fabietto, gli dice che la fuga è solo un palliativo: “Alla fine torni sempre a te Schisa, e torni qua. Torni al fallimento. Perché è tutto un fallimento.”

Il cinema diventa la risposta ai dolori e ai tormenti dell’esistenza, attraverso di esso il protagonista ritrova l’unità perduta nel momento del trauma dovuto alla perdita dei genitori. “Non ti disunire Schisa! Non ti disunire mai.” urla Capuano al ragazzo, in un inno d’amore verso il cinema, verso Napoli e verso il potere della narrazione. Paolo Sorrentino riesce a commuoverti in modo maledettamente sottile e preciso, senza ricorrere a trucchi o a ruffianate. Nei suoi film troviamo la poesia che cerchiamo sempre nella vita, ma anche quella che non cerchiamo e che inevitabilmente ci colpisce, l’essenza delle piccole cose.

Marco Costa

Secop LAB anno II

Lettera dalla redazione

Un cordiale saluto a tutti, sono Matteo Berretta coordinatore della nuova redazione di Secop LAB 2022 per SECOP edizioni.


Con questa breve lettera, vorremmo esprimere non solo la gratitudine per l’opportunità che ci è stata data ma anche la grande voglia di condividere questa esperienza con voi. Quest’anno Secop LAB si rinnova, ed è pronto ad espandersi con freschezza e grande carica agonistica; siamo pronti per combattere battaglie, intraprendere avventure e condividere con voi i nostri racconti. La redazione quest’anno vi offre anche la possibilità di farci leggere le vostre storie attraverso delle rubriche dedicate e di partecipare con noi a eventi organizzati, potrete dunque interagire con la redazione ed essere partecipi di questo nostro viaggio nel passato, nel presente e nel futuro.

Secop LAB 2022 non sarà solo una redazione, ma sarà anche Etnico, Cult, Pop, Comunità, Amore, Violenza, Genere, Voce, Rabbia, Gioia, Ricordo, Condivisione e Esposizione.


Quattro nuove rubriche (e un podcast)

Con le nostre nuove rubriche Culture, People, Weekly World e Day By Day speriamo di riuscire a catturarvi e incuriosirvi riguardo l’attualità, la società e le tendenze del momento, mentre grazie al nostro podcast IA andremo a muovere insieme i primi passi verso il futuro dell’Intelligenza Artificiale.

Mai come quest’anno il vostro supporto sarà fondamentale e non vediamo l’ora di poter condividere con voi le nostre idee, le nostre passioni e i nostri interessi.

Un caloroso saluto da Matteo, Alessia, Arianna, Caterina, Ilaria, Kevin, Manila, Marco, Sara e Mariano

Sentite questa…
La raccolta di racconti La tela digitale presentata al Salone del libro di Torino

Di libri, di creatività, di ambienti di comunicazione e del progetto RApP.

Premessa

Premessa? Nessuno ama le premesse. Se anche voi siete così pigri, cliccate qui e saltate al resoconto).

“Se gli dai diritto di parola, poi hai il dovere di ascoltarli”, lo diceva sempre il mio maestro di comunicazione. Lui si riferiva ai social media e lo diceva per criticare l’uso che se ne fa da parte dei grandi content creators. Quelli che raccolgono followers a K e a M (sì, insomma, a migliaia e migliaia e migliaia). Un vero e proprio broadcasting alla vecchia maniera, solo trasferito sulle piattaforme digitali di conversazione.

Già, la conversazione… La promessa di una big conversation che sul finire degli anni ’90 ha rivoluzionato il panorama mediale.
Nasceva la nuova generazione degli ambienti di comunicazione e un gruppo di tecnoentusiasti lanciava un messaggio alla gente della Terra (…People of Earth) per tracciarne l’anatomia e la fisiologia; la prima tesi era perentoria: “I mercati sono conversazioni” (Markets are conversations).

Era il Cluetrain Manifesto a cura di Rick Levine, Christopher Locke, Doc Searls, David Weinberger ed era l’epoca in cui le piattaforme di blogging avevano cominciavano a dare la parola a nuovi scrittori e, attraverso le aree commenti, anche ai nuovi lettori. Una conversazione appunto, attraverso una semplice textarea e il tasto invia.

Una stagione entusiasmante. Oggi però sta diventando una stagione all’inferno. Tra hate speech, fake news, cyber bullismo e complottismi tra i più fantasiosi.


I bambini, perché nessuno pensa ai bambini? [scil.]

Non so ai bambini (che forse ne sono ancora esclusi), ma agli adolescenti qualcuno sì, ci pensa. E quello che emerge è che per loro… è complicato. Ce lo dice danah boyd nel suo It’s complicated. La vita sociale degli adolescenti sul Web (se non lo avete ancora letto, cosa aspettate? Per di più se siete anglofoni potete scaricarlo gratuitamente dal sito dell’autrice).

Gli adolescenti sono alcuni dei soggetti più immersi nella big conversation entrata nella sua stagione infernale. Là negli ambienti digitali è complicato. Ci sono gli adescatori di minori, si diceva un tempo. Ed è vero (perché c’è di tutto in quegli ambienti, che sono un pezzo di mondo, il nostro mondo di oggi, con tutto quello che a mano a mano ci coltiviamo), ma a rendere complicata la situazione non sono solo gli orchi, perché ci sono anche tante altre bestie. Ad esempio la Bestia di Salvini, che si aggira a suo agio su Facebook e ha provato a marcare il territorio anche su TikTok.

E cos’è TikTok? TikTok – ma un ambiente vale l’altro – è il nuovo muretto dove gli adolescenti si ritrovano lontano dai like indiscreti degli adulti, delle mamme e delle zie imbarazzanti, dei papà e degli zii imbarazzati, degli insegnanti e delle insegnanti imbarazz… (con la emme o con la enne???).

Una volta se stavi su Myspace… no scusate, prendiamola meno alla lontana, altrimenti non mi farò mai capire. Una volta se stavi su Facebook avevi una certa età e incontravi i tuoi pari età. Poi è successo che la piattaforma ha raggiunto trionfalmente il miliardo di utenti e si è verificato quello che i sociologi chiamano collasso dei contesti: su Facebook – ma, ripeto, il discorso vale per tutte le piattaforme – ti ritrovi la mamma a mettere like a uno sfogo tenebroso con cui cerchi di costruire la tua identità mediale ed è come quando gli adolescenti della generazione dei boomer la mamma andava a chiamarli al muretto. Che imbarazzo…

Ma al diavolo il muretto: quanto cringe in questa immagine! Scusate, sto ricevendo interferenze sul linguaggio. “Cringe” significa più o meno “imbarazzante” (ce lo spiega l’Accademia della Crusca, l’A-c-c-a-d-e-m-i-a della C-r-u-s-c-a… ma quanto sarà cringe?!). Ma può aiutarci a rendere l’idea di cosa sono le piattaforme intese come ambienti dove ci trovi anche la prof. di latino con le sue ricette, quella di italiano con le sue campagne di sensibilizzazione ambientale e il prof. di fisica con il suo podcast. E allora se sei un adolescente è davvero difficile. E che fai? Ti sposti. Sul muretto più lontano. Sul muretto di Instagram, di Snapchat, di TikTok, di quel nuovo ambiente che noi conosceremo solo quando ne avranno parlato i media mainstream, ovvero quando i ragazzi lo avranno già lasciato per quello successivo (dove però non mancano mai gli influencer della pubblicità né le bestie della politica: cringe entrambe le categorie, ma questo è un altro discorso e forse un giorno lo svilupperemo).

Ma basta chiacchiere. La cornice è sufficientemente delineata. Passiamo al quadro.


Paesaggio con ragazzi e ragazze

Esatto, paesaggio con ragazzi e ragazze, e non riesco a pensare che a questa scena di Kasaba, diretto dal turco Nuri Bilge Ceylan nel 1997.

  • I protagonisti sono gli studenti e le studentesse della scuola secondaria di secondo grado.
  • Il contesto è quello del progetto RApP.
  • L’occasione è stata propiziata da SECOP edizioni che ha organizzato un concorso letterario per studenti e studentesse sui temi dell’Agenda 2030.

Due parole su RApP, che sta per Ragazzi e Ragazze Apprendono tra Pari (in questa sede sarebbe troppo lungo descriverlo nel merito, per cui vi rimando al sito web informativo) e che prevede, in estrema sintesi, l’invito “Fai sentire la tua voce”, come recita il titolo di una canzone scritta, musicata e cantata dai ragazzi RApP della prima sperimentazione del 2019.

Da allora sono state tante le iniziative che hanno dato la parola ai ragazzi e alle ragazze RApP: un PON sullo Storytelling, un dibattito tra pari nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio a Firenze, un Convegno Internazionale con l’Associazione Italiana per l’Intelligenza Artificiale, il primo posto al bando MIUR sulle Competenze Digitali e di Cittadinanza, con una rete di 7 scuole su tutto il territorio nazionale.

Il concorso letterario di cui stiamo parlando è l’ultima iniziativa RApP in ordine di tempo: è stato pensato da SECOP edizioni e gestito dal gruppo di progetto RApP con il supporto di SecopLab, con la supervisione della prof.ssa Lorella Rotondi e con la partecipazione degli studenti e delle studentesse dell’ISIS Gobetti-Volta di Bagno a Ripoli (Firenze).

Nella sua prima edizione è stato dedicato alla memoria di Aaron Swartz e ha permesso di selezionare 15 racconti che sono andati a confluire nel volume che li raccoglie, La tela digitale, 162 pagine che vedono autori 42 studenti e studentesse.

Questi che seguono sono i nomi, che doverosamente e felicemente elenco (in ordine alfabetico):

Alessandro Pacini, Andrea Bochicchio, Aurora Bettini, Ayoub Sarrar, Cosimo Paoli, Davide Pietrini, Diego Cattedra, Duccio Latini, Duccio Seri, Emiliano Biondi, Enriko Zdrava, Filippo Bonciani, Filippo Bronzi, Filippo Santoro, Francesco Buti, Francesco Severi, Gabriele Messina, Giulia Ugolini, Giulio Conciarelli, Harold Rosales, Julio Villanueva, Leonardo Celenza Carone, Letizia Ariano, Lorenzo Berlincioni, Lorenzo Clemente, Lucas Melo Alves, Maria Giulia Ciobotaru, Martina Secori, Matteo Bernini, Matteo Falleri, Mattia Antongiovanni, Mihaela Spirache, Mirko Tacconi, Neri Ducci, Niccolò Bragetta, Niccolò Maurri, Niccolò Oldoli, Niccolò Parmigiani, Pietro Rovai, Riccardo Lumare, Tommaso Pietrantoni, Viola Pelli.

Hanno scritto, singolarmente e in gruppi, i 15 racconti che danno corpo a La tela digitale. Se siete curiosi date un’occhiata all’indice e scaricate la prefazione di Peppino Piacente, se siete amanti della lettura prenotate una copia del libro. Se invece siete come noi e volete assumervi il dovere di ascolto nei confronti di questi ragazzi e queste ragazze a cui è stata data la parola, questi che seguono sono i primi due racconti che abbiamo sviluppato in forma di audionarrazione (si raggiungono da un QRcode stampato in apertura del libro, ma ci fa piacere condividerli anche qui):

Radici della speranza
Lorenzo Clemente, Filippo Bonciani, Filippo Bronzi

(letto da Caterina Tozzetti)

Il mondo in cui viviamo attraverso la narrazione di Nødder, che ha lasciato il testimone a Wot, per ricordarci che… la bellezza salverà il mondo.

Memorie di una casa
di Cosimo Paoli

(letto da Mariagiovanna Pederzoli)

La piccola Oriana da cui è nata la grande Oriana; e la zia che le ha lasciato una preziosa lezione; e il “fardello” che l’autore (e con lui l’autrice) lascia ai lettori.


L’antologia La tela digitale presentata al Salone del libro di Torino

Il 15 ottobre 2021 al Salone del libro di Torino è stata presentata l’antologia di racconti La tela digitale. A cura di SECOP edizioni, presso lo stand della Regione Puglia, con un intervento del prof. Gianluca Simonetta e della prof.ssa Lorella Rotondi. Ma soprattutto con un inedito racconto a cura dei ragazzi e delle ragazze del progetto RApP che hanno scritto i racconti, e che ancora una volta hanno fatto sentire la loro voce dimostrando la loro autorialità.

Gli studenti e le studentesse della VB (FM) dell’ISIS Gobetti-Volta di Bagno a Ripoli
Gli studenti e le studentesse della VA (IT) dell’ISIS Gobetti-Volta di Bagno a Ripoli
Peppino Piacente e il prof. Gianluca Simonetta (Università di Firenze)
Peppino Piacente e la prof.ssa Lorella Rotondi (Gobetti-Volta)

42 giovani autori, per usare il lessico di un editore da carta stampata. Ma anche 42 giovani creators, per usare il lessico che l’editore da carta stampata ha cominciato a frequentare da quando ha avviato l’iniziativa Secop Lab, ovvero un laboratorio creativo che dà spazio a giovani studiosi di comunicazione digitale.

Cosa significa creators lo sappiamo tutti. Sono i ragazzi e le ragazze che creano i video su YouTube, le storie su Instagram e tutto ciò che compare online nelle varie piattaforme. Ebbene, il libro di SECOP edizioni che raccoglie i 15 racconti scritti dai ragazzi e dalle ragazze delle scuola secondaria di secondo grado è stato concepito (anche) come una sorta di piattaforma-di-content-creation-a-stampa.

Per postare non si clicca un bottone come sulle piattaforme di social media, ma si riempie comunque un’area di testo: quella del documento su cui hanno scritto i partecipanti al concorso.

È successo poi che altri ragazzi hanno avviato l’iniziativa di svilupparli in forma di audioracconti e allora la piattaforma-di-content-creation-a-stampa è diventata anche una piattaforma-di-conversazione-creativa, aperta al remix e al resto delle operazioni tipiche delle “culture partecipative” di cui parlava Jenkins in uno dei più bei libri di comunicazione degli ultimi anni: Culture partecipative e competenze digitali. Media education per il XXI secolo.

Se siete arrivati fino a qui siete dei lettori coraggiosi.
Se poi siete studenti/esse o insegnanti e vi è venuta voglia di partecipare, visitate la pagina di presentazione della seconda edizione del concorso e iscrivetevi con la vostra classe.

Vi aspettiamo!


Sei un insegnante?

Vuoi partecipare con la tua classe alla prossima edizione del concorso letterario DIGITale?


Info più dettagliate? Eccole qua!

I riferimenti completi alla raccolta di racconti La tela digitale:

Il sito informativo del progetto RApP:

Il volumetto che racconta alcune delle esperienze RApP:

I due libri a cui si fa riferimento nell’articolo (due dei più bei libri di comunicazione in circolazione):

  • Jenkins H., Purushotma R., Weigel M., Clinton K., Robison A. J. (2010). Culture partecipative e competenze digitali. Media education per il XXI secolo
    [preview online]

Secop Talk | Issue 17 | Partnership per gli obiettivi

#michiamocaterina

Una rubrica ideata da Secop Lab, progetto di Secop Edizioni

Il 17esimo, e ultimo, obiettivo dell’Agenda 2030 per uno sviluppo sostenibile afferma di dover rafforzare i mezzi di attuazione e rinnovare il partenariato mondiale per lo sviluppo sostenibile, che significa partenariati tra governi e società, collaborazioni inclusive per il raggiungimento di obiettivi condivisi e necessari per l’intero Pianeta.

Ciascun Paese si dovrà, quindi, impegnare nel reindirizzare i propri fondi, investendo nel settore energetico, in infrastrutture e trasporti, informazione e comunicazione, ma soprattutto facendo riferimento ai paesi in via di sviluppo.

Ce ne parla Caterina nella nuova puntata di Secop Talk.

1+1 = MONDO

Durante questi mesi non abbiamo fatto che altro che portarvi con noi nell’approfondimento di temi toccati dall’Agenda 2030.
Come per tutti i percorsi, arriva l’ultimo capitolo, che per noi non significa la fine di un viaggio, ma la conclusione di una prima tappa, alla quale siamo giunti insieme e, ci auguriamo, più consapevoli.
La collaborazione è da sempre fondamentale all’interno di un gruppo, in questo caso di una redazione, e in un periodo storico come quello che stiamo vivendo è, probabilmente, stata ancora più necessaria per la nascita, e riuscita, di questo progetto.
Nonostante le distanze, la collaborazione è stata punto fermo, cardine, nella costruzione di piccoli mattoni di quella che è, e sarà, SecopLAB.

Ed è proprio così, che giungono a conclusione gli obiettivi dell’Agenda 2030.

L’SDG 17 per uno sviluppo sostenibile afferma di dover rafforzare i mezzi di attuazione e rinnovare il partenariato mondiale per lo sviluppo sostenibile, che significa partenariati tra governi e società, collaborazioni inclusive per il raggiungimento di obiettivi condivisi e necessari per l’intero Pianeta.
Ciascun Paese si dovrà impegnare nel reindirizzare i propri fondi, investendo, soprattutto, nei paesi in via di sviluppo, nel settore energetico, in infrastrutture e trasporti, informazione e comunicazione.
Aspirare ad un mondo totalmente equo resta probabilmente utopico, ma la richiesta che quindi viene fatta è di muoversi, quanto più possibile, a sostegno di questa causa a livello locale, nazionale ed internazionale, mettendo al primo posto chi si trova in difficoltà, sensibilizzando ogni singolo cittadino del Mondo e sfruttando l’impegno di tutti per raggiungere un nuovo equilibrio.

Prendendo in considerazione alcuni dati:

  • I fondi per l’assistenza allo sviluppo nel 2014 hanno raggiunto i 135,2 miliardi di dollari, il livello più alto;
  • il 79% delle importazioni da Paesi in via di sviluppo entra nei confini dei paesi sviluppati esenti da dazi;
  • nei Paesi in via di sviluppo, il peso del debito resta a circa il 3% delle entrate legate alle esportazioni;
  • in Africa, il numero degli utenti di Internet e quasi duplicato in quattro anni;
  • Il 30% dei giovani nel mondo sono “nativi digitali” attivi da almeno cinque anni;
  • tuttavia, sono almeno 4 miliardi coloro a non poter usufruire di questo servizio: il 90% risiede in regioni dei Paesi in via di sviluppo

Ma quindi, cosa viene richiesto per raggiungere nuovi traguardi?

Finanza

In ambito finanziario si richiede di aiutare paesi meno agiati ad aumentare la loro capacità fiscale interna, mobilitando risorse economiche, e permettendo di sostenere debiti a lungo termine attraverso finanziamenti, riduzioni e ristrutturazioni del debito, alleggerendone, così, il peso.
Inoltre, lo 0.7% del reddito nazionale lordo di paesi industrializzati dovrà essere destinato in aiuti pubblici per lo sviluppo (APS/RNL), così come i fornitori mondiali di aiuto pubblico, saranno sollecitati a fornire almeno lo 0.20% del loro reddito in APS/RNL a Paesi meno sviluppati.
Il rapporto tra entrate fiscali e Pil è, nel 2018, il 31% a livello globale, con Europa e America del Nord in testa per capacità fiscale interna e riscossione, da parte della Amministrazioni Pubbliche, delle entrate.

In Italia, nel 2019 le entrate delle AP si sono riconosciute nel 42,4% del PIL, una quota in costante crescita anche nell’ultimo anno.Nonostante questo, l’ASP destinato a paesi bisognosi, anche se in aumento, non è abbastanza per i target 2030 previsti: l’Italia si colloca al di sotto del contributo medio del DAC (Comitato per l’Aiuto allo sviluppo).

Tecnologia

Nel 2021, così come per gli anni precedenti, la Tecnologia si conferma risorsa essenziale per garantire un corretto sviluppo. Un vero e proprio diritto umano.
Per questo motivo, l’obiettivo da raggiungere è riuscire a promuovere crescita, scambio e diffusione di tecnologie in tutti quei paesi che al momento si trovano un passo, ma anche due, indietro rispetto a “noi”. 
Ma non solo.
Queste tecnologie, infatti, dovranno agire nel rispetto dell’ambiente e a condizioni favorevoli per il paese che ne usufruirà, rafforzando la cooperazione internazionale e favorendo l’accesso a scoperte scientifiche, innovazioni, permettendo una miglior condivisione di conoscenze, grazie a modalità stabilite e concordate tra i meccanismi già esistenti come le Nazioni Unite.
La trasformazione digitale è alla base dell’evoluzione di un paese, che sia economica o sociale, strumento di informazione, conoscenza o inclusione, deve essere garantita.
Nonostante il rapido progresso degli ultimi anni, è quasi paradossale pensare che solo una percentuale della popolazione riesca ad accedervi.
Possiamo considerare l’Italia un paese abbastanza al “passo con i tempi”: nel 2019 circa il 74,7% delle famiglie disponeva di una connessione a banda larga, così come molte imprese hanno, nello stesso anno, digitalizzato i propri sistemi di gestione.L’ultimo periodo è risultato, però, una fase di stazionamento, con un rallentamento nello sviluppo, ma soprattutto dove ancora si è parlato di divari territoriali, con evidenti dati contrastanti tra settentrione e meridione, ovviamente a svantaggio di quest’ultimo.

Che questi obiettivi siano o meno raggiunti entro il 2030, è ancora difficile da dirsi, nonostante i ritardi siano già evidenti, ma che sia 2030 o 2040 è evidente che abbiamo bisogno di raggiungerli.

Non esiste Futuro se qualcuno viene lasciate indietro.

Non esiste Evoluzione se l’uno continuerà a prevalere sull’altro.

Fonti