Città-spugna: la città del futuro

Una della conseguenze più disastrose del cambiamento climatico sono i nubifragi e l’innalzamento del livello del mare. Troppo spesso negli ultimi anni le città sono attraversate da venti e piogge devastanti, con danni da milioni di euro. Il maltempo allaga le città, anche quelle più organizzate. Basti ricordare il nubifragio che colpì Copenaghen nel 2011, allagando la città e portando danni per oltre un miliardo di dollari. Ma non c’è bisogno di andare all’estero: il nostro Paese ogni anno è attraversato da terribili eventi che puntualmente ci trovano impreparati. Come sarebbe l’Italia senza Venezia? Abbiamo mai pensato che una delle conseguenze più catastrofiche dei cambiamenti climatici sia proprio quella di perderla? 

Una soluzione ci sarebbe: la sponge city.

L’idea nasce in Cina

È nata dalla Cina l’idea di sponge city (città-spugna), una città che, proprio come dice il nome, sarebbe in grado di assorbire acqua per riutilizzarla: la Cina, infatti, ha investito 12 miliardi di dollari per trasformare 250 città in città-spugna. L’obiettivo era molto ambizioso, dato che il governo voleva per il 2020 che il 70% dell’acqua piovana fosse assorbita e riutilizzata. Purtroppo l’emergenza Covid-19 ha fermato tutto, e ad oggi non sappiamo con precisione se l’obiettivo sia stato effettivamente raggiunto. L’architetto cinese Kongjian Yu è il pioniere di questo nuovo ambito e condivide con il mondo un messaggio chiave: il modo in cui pensiamo alle risorse d’acqua (fiumi, laghi, acqua piovana, etc..) “è totalmente sbagliato”.

“Quello che abbiamo fatto è totalmente sbagliato. […] Pensiamo che possiamo usare una diga per proteggere le città dalle inondazioni. Dobbiamo capire che queste infrastrutture in realtà uccidono la natura.” 
Kongjian Yu

Struttura di una città-spugna

Avete presente quei film che ci fanno immaginare le città del futuro, dove ci sono palazzi enormi di vetro coperti di piante e macchine che volano? Ecco, l’idea è un po’ quella, ma più ridimensionata. Anziché continuare a raccogliere in bacini di cemento le risorse idriche, dovremmo accoglierle nella città, attraverso parchi, pavimenti permeabili, palazzi coperti di verde e swales. Uno swale, secondo il modello americano, è un canale con gli argini leggermente inclinati. Se costruito artificialmente, è essenziale per gestire il deflusso di acqua e garantire che l’acqua piovana si infiltri nel sottosuolo. Ma quali sono nel dettaglio i vantaggi di una città-spugna? Come abbiamo già detto, un grande vantaggio sarebbe quello di poter raccogliere l’acqua, in modo da poter essere riutilizzata filtrandola o conservandola per un periodo di siccità. Un secondo vantaggio è quello di ridurre i danni causati da un nubifragio: se la città è concepita come un grande bacino idrico, non avrà problemi ad affrontare un’improvvisa scarica d’acqua. Infine, una sponge city è piena di verde e quindi di alberi e piante che assorbono anidride carbonica e rilasciano ossigeno, diminuendo così lo smog e rendendo l’aria più respirabile.

Esempi dal mondo

Ad aprire la fila è Wuhan, città che conosciamo bene, ma forse per la ragione sbagliata. Con l’attuazione di 228 progetti per la trasformazione di oltre 38,5 chilometri quadrati, Wuhan è stata la prima città-spugna cinese, guadagnando questo titolo nel 2015. Sempre in Cina troviamo il progetto più all’avanguardia concepito fino ad oggi: la Liuzhou Forest City. A nord della città di Liuzhou (situata nella regione dello Guangxi) è in fase di attuazione un piano, commissionato allo studio Stefano Boeri Architetti, per costruire la prima città foresta del mondo. Ogni edificio sarà coperto da piante e alberi, in modo tale che la città possa assorbire 10mila tonnellate di CO2 all’anno; ma non solo. La città sarà completamente autosufficiente dal punto di vista energetico attraverso l’utilizzo di energie rinnovabili: “a partire dall’uso della geotermia per il condizionamento degli spazi interni degli edifici e dall’ installazione diffusa sui tetti di pannelli solari a elevata efficienza per la captazione delle energie eoliche rinnovabili”.

La già citata Copenaghen ha imparato dai suoi errori molto presto, iniziando dal 2011 in poi a costruire un piano ventennale per prevenire le alluvioni, integrato con il piano per la riduzione dei gas serra: il governo ha investito oltre 1,3 miliardi di euro. Oltre a ricoprire, in alcune zone della città, l’asfalto con manti erbosi, il governo ha pensato a una soluzione per creare dei bacini per raccogliere l’acqua. Un’area della città pari a 22mila metri quadrati sarà trasformata in bacino con la capacità massima di 18mila metri cubi d’acqua. Il termine dei lavori è previsto per il 2022. Altre città europee, come Berlino e Londra, si sono indirizzate verso politiche mirate per aumentare il verde in città. Londra in particolare, con il progetto 100 Pocket Parks, vuole spargere 100 parchi in giro per la città.

E l’Italia? In Italia neanche si parla di città-spugna. Il nostro paese non sembra in grado, o non ha le forze necessarie, per pensare a un piano così rivoluzionario. Esistono dei progetti per il rischio alluvioni, ma si pensa sempre in piccolo o a posteriori: dopo l’alluvione ci si impegna per trovare i soldi per coprire i danni.

Secondo un rapporto del Consiglio nazionale dei Geologi e del Cresme pubblicato nel 2010, sono 6 milioni gli italiani che abitano nell’area di territorio italiano considerato ad elevato rischio idrogeologico; secondo il report redatto dal Ministero dell’Ambiente nel 2008, sono ben 6.633 i comuni italiani in cui sono presenti aree a rischio idrogeologico, di cui molte legate alla presenza di corsi d’acqua che li attraversano.

Sicuramente sia in Italia che in qualsiasi altra parte del mondo non possiamo più aspettare la prossima alluvione o il prossimo nubifragio semplicemente preparandosi al peggio. È il momento di pensare in grande e su tempi molto lunghi, mettendo da parte gli interessi economici per fare la cosa giusta. 

Fonti
Per approfondire

Uguaglianza: una battaglia ancora in corso

L’inclusione sociale, economica e politica

Secondo un’indagine dell’Istat nel 2019 in Italia c’erano quasi 2 milioni di famiglie in condizione di povertà assoluta, pari a circa 4,6 milioni di individui. La povertà è il primo degli obiettivi dell’Agenda 2030, e ne abbiamo parlato ampiamente in un articolo. Questo triste dato dipende da molti fattori, primo tra tutti il fatto di non avere accesso a un lavoro, di non avere un supporto sociale o statale, e di non avere le capacità o le possibilità di trovarli. 

L’inclusione sociale, economica e politica dovrebbe essere a disposizione di tutte e di tutti. Questo perché partecipare alla vita del proprio paese è fondamentale per poter attuare quei processi sociali in grado di migliorare il livello di vita degli individui stessi. L’inclusione sociale permette di avere a disposizione una rete di individui, familiari e non, su cui poter fare affidamento. L’inclusione economica permette di avere un lavoro in grado di soddisfare i propri bisogno primari e quelli della propria famiglia. L’inclusione politica, infine, permette di partecipare alla vita pubblica, prendendo decisioni importanti sullo sviluppo e sul cambiamento del paese.

Per poter garantire inclusione c’è ovviamente bisogno di assicurare a chiunque pari opportunità. Purtroppo anche questo punto non è stato ancora risolto, e siamo ancora lontani da una soluzione definitiva. Argomento sempre molto caldo è quella della differenza di genere, essendo la lotta ancora in corso (ne abbiamo parlato qui ). Il Global Gender Gap 2020 ci mette di fronte a una cruda realtà: anche se la parità di genere è stata completamente raggiunta per quanto riguarda l’istruzione in 40 dei 153 paesi studiati, ci vorranno ancora 95 anni per poter arrivare a una parità completa per quanto riguarda la rappresentazione politica.

The Global Gender Gap index ranking 2020

Questo è solo un esempio, ma basta prendere uno qualsiasi tra gli altri parametri sociali (età, etnia, religione, disabilità, origine, status economico) per avere gli stessi risultati alquanto disastrosi. L’associazione statunitense no-profit National Partnership for Women and Families ha unito il parametro del sesso di nascita con l’etnia, svolgendo un’indagine molto importante negli Stati Uniti. Lo scorso marzo hanno pubblicato i risultati: le donne di colore vengono pagate 63 cents per ogni dollaro guadagnato da un uomo bianco, le donne ispaniche 55 cents e le donne bianche 79 cents.

Migrazione ordinata e sicura

Facilitare la migrazione sicura e ordinata non poteva mancare come obiettivo altrettanto condivisibile e ugualmente difficile da realizzare. La geopolitica internazionale è arrivata a dei livelli di complessità forse mai visti prima. Gli interessi politici delle singole nazioni si sovrappongono agli interessi economici delle altre nazioni, in un circolo vizioso senza fine. In tutto questo calvario le povere persone che cercano di fuggire da guerre e fame non trovano mai il loro posto nel mondo. l’Italia è tra i primi Paesi a non impiegare tutte le forze a sua disposizione per poter rendere più sicura la migrazione. Ma riconosciamo anche il difficile compito nel dover salvare, salvaguardare e inserire nel contesto sociale circa 180 mila sbarchi nel 2016 e, più recentemente, meno di 20 mila nel 2019. Per il 2020 sono stati calcolati circa 13 mila sbarchi. Situazioni simili si stanno verificando in molte altre parti del mondo: in Siria a migliaia cercano di scappare dalla guerra ormai decennale, passando dalla Turchia, che utilizza i migranti come una minaccia contro l’Unione Europea. La situazione è sicuramente complicata e non facile da gestire.

Non è una novità il fatto che nuove forme di razzismo si stiano diffondendo a macchia d’olio, fomentato da partiti e leader di destra. È di pochi giorni fa la notizia di una sparatoria ad Atlanta che ha lasciato otto vittime, tutte donne asiatiche. Le campagne sui social e le manifestazioni che sono seguite, guidate dallo slogan “Stop Asian Hate”, non sono più un evento eccezionale ma la normalità, soprattutto in America. Basta ricordare le numerose manifestazione a sostegno di Black Lives Matter che si sono tenute l’estate scorsa: migliaia di americani hanno violato le regole anti-covid per protestare contro la brutalità della polizia. La verità è che, ancora oggi, se sei bianco e commetti una strage, vieni arrestato e condotto in prigione. Se invece hai la carnagione scura vieni ucciso anche se sei disarmato. 

Il fatto che l’obiettivo 10  probabilmente non verrà realizzato a pieno entro il 2030, non vuol dire che i Paesi non si stiano impegnando per realizzarlo, anche se ad oggi appare ancora utopistico. È sempre un bene che la comunità internazionale si ponga degli obiettivi: più ambiziosi sono e più c’è la possibilità che le persone provino a realizzarli.

Pensiamo veramente di essere solo delle scimmie con la capacità di saper sognare in grande? 

Per approfondire:

Economia circolare, tra rispetto ambientale e benessere

 Un nuovo sistema di sviluppo

Oggi il nostro sistema di sviluppo si basa sulla cosiddetta Economia Lineare, che sfrutta le risorse naturali (principalmente fossili) per generare beni e servizi, chiudendo il proprio processo produttivo con l’eliminazione degli sprechi, destinati ad accumularsi sempre di più.

Dall’altra parte, invece,  esiste L’Economia Circolare che  mira a ridurre la maggior parte dei rifiuti, convertendoli in una risorsa disponibile e riutilizzabile, chiamata materia prima seconda, all’interno del processo produttivo. Ogni prodotto o output, dal momento in cui viene fabbricato al momento del suo effettivo utilizzo, viene ottimizzato fino alla fine del suo ciclo di vita. In questo modo è possibile recuperare e riutilizzare tutto (o quasi) il materiale di scarto, come punto di partenza di un’altra filiera produttiva. L’Economia Circolare, infatti, mira ad eliminare gli sprechi attraverso una più efficiente progettazione di materiali, prodotti, sistemi e anche modelli di business, aggiungendo valore e qualità al processo produttivo e riuscendo,  di conseguenza, a generare un sistema di sviluppo ecosostenibile.

Benefici sociali ed economici

L’Economia Circolare non può essere considerata solo come un approccio alla sostenibilità ambientale, che rispetta l’ecosistema della flora e della fauna, ma è anche e soprattutto un metodo per aumentare in modo esponenziale la qualità della vita dei singoli individui e della società, generando sostenibilità economica e, quindi, un profitto monetario più concreto ed efficiente di quello attuale, ottenendo un’elevata sostenibilità sociale, attraverso una convivenza più trasparente e collaborativa all’interno della comunità. Non si tratta di un modello che si limita a supportare l’attuale economia lineare, ma è una realtà  che la sostituisce interamente in ogni fase del processo produttivo, rigenerandone e modificandone positivamente la struttura,  in modo da generare effetti positivi per i cittadini, per l’ambiente e per il Pianeta.

Per capire il problema che stiamo affrontando con il sistema di sviluppo odierno, possiamo facilmente pensare a questo: in Europa, per un valore di 355 miliardi di euro, si producono ogni anno 64,4 milioni di tonnellate di plastica, di cui solo un terzo viene riciclato. Ciò comporta costi di smaltimento elevatissimi, basti pensare che solo per la pulizia delle spiagge europee il costo è di 630 milioni di euro che, a livello globale, raggiunge i 13 miliardi l’anno. Questi costi aumentano sempre di più: in Italia, per esempio, tra il 2010 e il 2017, l’indice dei costi di gestione dei rifiuti è aumentato del 16,3%, aumentando in modo esponenziale il disagio sociale generato dall’insostenibilità dei costi di gestione dei rifiuti. Basti pensare che la capitale d’Italia, Roma, per gestire l’enorme quantità di rifiuti presenti nell’area urbana, sarà costretta ad adottare il sistema delle discariche, poiché i costi di gestione alternativa sono diventati insostenibili. L’Economia Circolare rappresenta un’ottima soluzione a tutti questi problemi: un giusto investimento nel settore della gestione circolare dei rifiuti potrebbe generare un profitto, sia in termini monetari che sociali. Favorire la pratica della raccolta differenziata, infatti, crea la possibilità di classificare i rifiuti in base alle diverse proprietà di riciclo, favorendone così la trasformazione in materia prima seconda. Quest’ultima rappresenta una nuova e più economica fonte di approvvigionamento per quelle aziende che spesso non riescono a sopportare il prezzo delle materie prime, i cui costi di acquisto e smaltimento stanno subendo, in molti casi, un aumento esponenziale.

Educazione Civica

L’Economia Circolare non si limita a coinvolgere Enti pubblici, associazioni, piccole e grandi imprese, ma è un approccio che interessa i cittadini stessi. Il ​​”cerchio” di questo modello, infatti, comincia proprio quando le pratiche quotidiane vengono messe in atto da quest’ultimi. Un esempio banale è la raccolta differenziata: meglio verrà eseguita all’interno delle abitazioni domestiche, prima sarà possibile avviare un processo produttivo circolare senza intoppi e costi aggiuntivi.
I gesti della vita quotidiana determinano in modo significativo l’impatto ambientale generato da ogni individuo (negli USA un cittadino produce circa 25,9 tonnellate di anidride carbonica in un anno). Per questo motivo, abbiamo bisogno di essere consapevoli che educazione civica e rispetto ambientale sono fondamentali per fare ognuno la sua parte, basti pensare alle circa 11.500 tonnellate di gomme da masticare per Nazione lanciate a terra ogni anno, o di consumo tra 9 e 10 miliardi di sacchetti di plastica all’anno per capire come siamo ancora lontani.

Benefici ambientali

Tra i piani dell’Economia Circolare vi è la cosiddetta forestazione urbana, definita come la coltivazione e la gestione degli alberi in relazione al loro effettivo e potenziale contributo al benessere fisiologico, sociologico ed economico della società urbana.

Per natura le piante sono in grado di assorbire CO2 e purificare l’aria circostante da varie sostanze inquinanti. Sono strumenti che la natura ci offre per mitigare il microclima e l’impatto delle emissioni climalteranti, eccessivamente elevate in città.

La fotosintesi della clorofilla consente alle piante di assorbire l’anidride carbonica e di introdurre nuovo ossigeno nell’aria, le foglie assorbono e degradano le molecole inquinanti (come il monossido di carbonio e l’ozono) ed agiscono da filtro per le polveri sottili. La predisposizione delle aree verdi, inoltre, aiuta a contrastare l’effetto “isola di calore”, altro problema, tipico dei grandi centri urbani, che fa alzare la temperatura. Il verde è anche una barriera naturale al rumore e garantisce un corretto deflusso delle acque meteoriche al suolo, e  aiuta anche nella regolazione climatica degli edifici, riducendo la temperatura circostante nei mesi estivi e proteggendoli dai venti freddi durante l’inverno. Infine, ma certamente non meno importanti, sono tutti i benefici percepibili in termini di qualità della vita delle persone, con la creazione di spazi di socializzazione, svago, attività fisica e relax.

Secop Talk | Issue 09 | Imprese, innovazione e infrastrutture

#michiamocaterina

Una rubrica ideata da Secop Lab, progetto di Secop Edizioni

A partire da marzo 2020 siamo stati privati di un aspetto sicuramente molto importante per la nostra persona e per la nostra comunità: il contatto umano.
È proprio grazie alla trasformazione portata avanti in questo particolare anno, alla resilienza dimostrata, che riconosciamo l’importanza del nono obiettivo dell’agenda 2030: innovazione, sviluppo di imprese ed infrastrutture, facendo soprattutto affidamento all’innovazione tecnologica e alla digitalizzazione.

Ne abbiamo parlato nell’articolo di Marco Caterina, e, come ogni settimana, la nostra Caterina ce ne parla nella nuova puntata di Secop Talk.

L’accelerazione della società digitale

Nel 2020 le nostre vite sono cambiate radicalmente. Chi più chi meno, tutti abbiamo dovuto rivedere le nostre abitudini e il nostro stile di vita, per adattarci alla situazione dovuta alla pandemia globale che ci ha travolto. L’emergenza legata alla diffusione del nuovo virus Sars Covid-19 ha determinato una sequenza di cambiamenti rapidi, invasivi e spesso difficili da accettare, i quali hanno portato ad un clima di incredibile incertezza e instabilità nel mondo.

Nei mesi passati, il concetto di resilienza è stato centrale per contrastare questa straordinaria situazione e lo sarà ancora per molto. L’SDG numero 9 attribuisce molta importanza proprio alla resilienza, nel modo in cui va inteso lo sviluppo delle infrastrutture e promuovendo in particolare l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione.

È innegabile che la pandemia ha stravolto le nostre vite. Le tecnologie digitali hanno reso possibile analizzare questo momento storico, traendo alcune conclusioni positive. In risposta alle numerose misure restrittive applicate per contrastare il virus, è avvenuta in molti paesi un’accelerazione incredibile dello sviluppo delle tecnologie, agevolando la comunicazione a distanza. In generale è cambiato l’approccio alla tecnologia per molti di noi. Si è verificato un maggiore sviluppo, quindi , dell’infrastruttura tecnologica, ma il fatto più considerevole è che è cambiata la percezione sociale di ognuno di noi nei confronti dell’innovazione e delle tecnologie digitali. Le limitazioni che le disposizioni di Governo ci hanno imposto, hanno riguardato in misura consistente gli spostamenti, di conseguenza l’interazione dal vivo con l’altro. A livello sociale, questo ci ha portati a rivedere in toto le possibilità di entrare in contatto diretto con le altre persone e perció abbiamo sviluppato tutti, in misura differente, maggior consapevolezza circa l’utilizzo delle nuove tecnologie. I “nativi digitali”, in questo contesto, hanno avuto meno difficoltà ad adattarsi rispetto alle generazioni passate, ma, comunque, abbiamo assistito ad un fenomeno di accettazione del paradigma tecnologico, ampiamente condiviso.

Una digitalizzazione accelerata

La convergenza delle società verso la digitalizzazione esisteva già prima della diffusione del virus, ma la pandemia ha ridotto notevolmente i tempi. Internet e le nuove tecnologie digitali, sono stati il maggior strumento di resilienza adottato per cercare di contrastare le difficoltà, nel corso dell’ultimo anno. Ovviamente anche nel mondo del lavoro abbiamo assistito ad una transizione incredibilmente repentina. Per non restare indietro e rischiare il fallimento, tutte le aziende, dalle multinazionali alle piccole imprese,  si sono dovute rapidamente adattare al cambiamento, soprattutto quelle che faticavano nella transizione al digitale. In questo contesto ci sono stati Paesi che hanno avuto più difficoltà di altri, perché erano ancora ad un livello di digitalizzazione basso. Ma, forse, è proprio questa la giusta chiave di lettura da cui trarre beneficio. A livello istituzionale, le tecnologie digitali, durante la pandemia hanno permesso di colmare il divario tra i paesi più sviluppati e quelli che erano rimasti ancora indietro, contribuendo alla digitalizzazione della Pubblica Amministrazione.

Il panorama italiano

Il caso dell’Italia è un esempio di paese che si sta muovendo molto sulla digitalizzazione della PA, ma che ancora fatica a trasmettere alla società il cambiamento. Il nostro Paese si posiziona 18° posto per la capacità della PA di sfruttare le potenzialità offerte dall’ICT con un valore (71%) in linea con la media europea (72% nell’UE a 27) e in crescita rispetto agli anni passati. Tuttavia, l’Italia si colloca all’ultimo posto in Europa per utilizzo dell’eGovernment: solo il 25% dei cittadini utilizza servizi digitali per interagire con la pubblica amministrazione, contro una media europea del 60%.

Enrico Giovannini, portavoce dell’ASviS durante lo scorso Festival dello Sviluppo Sostenibile si è espresso specificando la sua posizione nei confronti del nostro Paese, riguardo il raggiungimento dell’SDG numero 9. 

Nel suo intervento, Giovannini si è espresso riguardo il processo di digitalizzazione della PA: “Oltre a discutere di sviluppo infrastrutturale, tecnologico, territoriale, c’è infatti la necessità di considerare “un’innovazione sociale”, concetto in Italia non ancora consolidato. “Non c’è innovazione vera senza innovazione sociale” ricorda Giovannini, “non solo perché la tecnologia ha modificato radicalmente le interazioni, ma perché questo sta cambiando profondamente la società”.

Delivery, dobbiamo parlare.

Perché lo stop dei corrieri food e pacchi è un segnale d’allarme per l’economia e per il sociale.

Lockdown: pre e pro in ambito economico

Quando a inizio Marzo 2020 tuonò “parte il lockdown nazionale, restate a casa” molti italiani reagirono comprando online ciò che normalmente trovavano fuori casa: dai beni di prima necessità agli oggetti più particolari.
Qualsiasi necessità sarebbe arrivata per consegna.

Le abitudini d’acquisto degli italiani, quindi, cambiate ad inizio pandemia, nonostante un lieve rallentamento, ora si mantengono stabili.
Nel 2020, secondo l’indagine del portale Statista, sono stati 2,05 miliardi le persone al mondo ad avere acquistato online e le vendite ecommerce globali toccheranno, entro il 2023, quota 7 trilioni di dollari. 
Se a Marzo 2020 quasi l’80% di italiani, che hanno acquistato beni di largo consumo online, era obbligato a comportarsi così, ora sappiamo che la metà di questi continuerà a fare spesa sul web anche a pandemia conclusa (Nielsen Italia, 2020).
Il 26% di questi, infatti, acquista regolarmente su internet una volta a settimana. 

Tuttavia, alcuni settori dell’economia non erano pronti all’enorme aumento dell’e-commerce: motivo per cui alcune aziende, oggi, sottopongono i propri lavoratori a ritmi estenuanti, tenendo conto solo della domanda dei propri clienti. 
Questa situazione nel clima della GIG economy fiorisce.
In una GIG economy, infatti, il lavoro su richiesta tramite app consente di ottimizzare tempi con domanda e offerta che si relazionano ad alcuni algoritmi. Il lavoro è basato, però, sul luogo fisico (supermercato, ristorante ecc) e funziona in base al funzionamento del luogo stesso. 
Durante il lockdown questo meccanismo ha salvato o quantomeno ha tappato buchi ai ristoratori, che si vedevano impossibilitati a ospitare clienti (il compartimento food&grocery in condizioni normali frutta circa 2,5 miliardi di euro).
Non è un caso che, proprio la settimana scorsa (22 Marzo), si siano verificati due grandi scioperi nel mondo “delivery”: le consegne di pacchi da parte di Amazon e quella del food delivery, Glovo, Just eat ecc.

Il caso Riders

Per il 26 Marzo è stato indetto uno sciopero dei rider (fattorini) dei servizi AssoDelivery.
La situazione da sempre critica, si è esasperata con la pandemia, che ha fortemente incrementato rischi e ritmi. 
La protesta, dilagata in circa 30 città italiane, prevedeva che in quel giorno  non si doveva ordinare nulla da ristoranti e fast food, così da bloccare piattaforme come Glovo, Just eat, Deliveroo, ecc per aderire al “No delivery day”.
Durante le proteste i cori che si alzavano recitavano slogan come: “non siamo schiavi, siamo lavoratori”.
Tutto questo perché le trattative con AssoDelivery tardano a concludersi e, dopo 5 anni di lotte per i diritti e per la richiesta dell’applicazione di un contratto collettivo nazionale (così da essere riconosciuti come lavoratori), la società preferisce tergiversare e continuare a pagare multe. 
La Procura di Milano ha, infatti, notificato a quattro società del delivery che le posizioni dei propri ciclofattorini necessitano di regolarizzazione. 

I lavoratori di questo settore sono per lo più immigrati, che non hanno diritto, non avendo un contratto regolarizzato, a chiedere un documento per ottenere il permesso di soggiorno.
Il loro lavoro si basa su un sistema a cottimo, la paga è a consegna, tanto che alcuni rider denunciano un vero e proprio racket dietro questo meccanismo. Alcuni fattorini pagherebbero tra i 30 e i 50 euro al mese per ottenere un numero più elevato di ore di lavoro e di conseguenza più consegne. Per molti non c’è altra scelta, se si pensa che un fattorino su 5 è addirittura laureato. 
Il problema, infatti, riguarda ogni strato sociale.

Il  contratto collettivo dello scorso anno li qualifica come lavoratori indipendenti ma i fattorini sulle ruote, a tutti gli effetti, vivono in un clima di caporalato. 
Tra le richieste, dunque, troviamo un salario più alto o una paga minima, il riconoscimento di norme contrattuali fondamentali come la malattia, le ferie, il ricongiungimento con i familiari, la paga oraria fissa, il tfr, un monte ore minimo, oltre ai diritti sindacali di base, con cui al momento non esiste confronto.
Questo lavoro subordinato è pagato meno del reddito di cittadinanza, che non è un lavoro! 
La Cgil del Lazio ha fatto notare che, mentre in altri Paesi d’Europa molte aziende hanno già regolarizzato i propri ciclofattorini, rendendoli dipendenti e garantendo loro i diritti, in Italia continua ancora la malsana pratica dello sfruttamento. 

A questa situazione sembra voler trovare soluzione solo Just Eat che promette di rendere dipendenti i propri fattorini.

Il caso Amazon (o Ammazza On?)

“Ammazza On” recitavano gli striscioni dei lavoratori e dei fattorini Amazon che hanno protestato di fronte alle proprie sedi. 
Il 22 Marzo, dalle 7 di mattina, è iniziato il primo giorno di stop del colosso di Seattle, leader nell’e-commerce. 
Sono circa 16.500 le persone che lavorano per aziende rappresentate da Assoespressi. 
La richiesta ai clienti era di non comprare nulla online per 24 ore e l’adesione è stata circa del 75%. 
La situazione denunciata è figlia ancora una volta della pandemia e della noncuranza dei tempi che cambiano: i lavoratori lamentano turni e ripetitività del lavoro insostenibili, carichi di lavoro indecenti oltre a dolore fisico, indice dei disturbi degli arti superiori da lavoro, indicati con l’acronimo RSI (Repetitive Strain Injury) e dolore psicologico/stress.
Una giornata di lavoro inizia con la presa in carico dei pacchi da consegnare, fino a poco tempo fa tra i 160 e i 180, ma che in pandemia arrivano a picchi di più di 200. Un “buon” driver consegnerà questi colli (pacchi) in circa 6 minuti, seguendo l’algoritmo Amazon, un cattivo driver impiegherà più tempo nelle 95/100/130 fermate giornaliere. 
Le richieste che avanzano alla propria azienda sono di verificare i carichi di lavoro, modificare i turni, inquadramento professionale e riduzione delle ore di lavoro dei driver, oltre ad alcuni sgravi fiscali. 
Anche in questo caso la precarietà lavorativa è eccessiva e non è possibile che non ci siano relazioni sindacali stabili a mitigarne gli effetti. 

E se tutto crollasse?

Adesso che sappiamo cosa si nasconde dietro una pizza a domicilio o al pacco ordinato e arrivato in 24 ore, fermiamoci a riflettere.

Non dobbiamo dimenticare che durante il primo lockdown chi ci ha consegnato a domicilio cibo e altro è stato riconosciuto come lavoratore indispensabile e allora si devono cambiare le politiche e il trattamento di questi lavoratori, la cui dignità è sacrosanta, come abbiamo già avuto modo di sottolineare nell’articolo “SDG8 Obiettivo lavoro dignitoso e crescita economica: cosa si può cambiare?”. 

Secop Talk | Issue 08 | Lavoro dignitoso e crescita economica

#michiamocaterina

Una rubrica ideata da Secop Lab, progetto di Secop Edizioni

Qual é la differenza tra sviluppo e crescita economica?

Quando parliamo di crescita economica, facciamo riferimento a un concetto economico che misura la crescente produzione di beni e servizi per le comunità, e che si presuppone risultare costantemente in crescita, per sopperire all’aumento dei bisogni della collettività.
Quando parliamo di sviluppo, facciamo invece riferimento ad un miglioramento della qualità della vita e ad un miglioramento della distribuzione del reddito.
Perché è quindi importante cominciare a ragionare in termini di sviluppo piuttosto che di crescita economica?

Con l’ottavo obiettivo dell’agenda 2030, si afferma di voler garantire una crescita economica duratura.

Ne abbiamo parlato nell’articolo di Sara Dell’Osso e ne parliamo oggi con il nuovo video di Secop Talk curato dalla nostra Caterina.

Obiettivo lavoro dignitoso e crescita economica: cosa si può cambiare?

Covid-19 e lavoro

Se c’è una cosa su cui la pandemia di Covid-19 ci fa riflettere è sicuramente il lavoro: c’è chi l’ha perso; chi l’ha mantenuto con difficoltà; chi ancora oggi ha la possibilità di lavorare e di far lavorare in smart working. Ma non tutti, come è evidente, hanno la possibilità di farlo, perché o è  il lavoro stesso a non permetterlo, come tutti i lavori manuali, o perché è il lavoratore che non ha a disposizione un computer o una connessione internet. Migliaia di persone sono state mandate a casa con la promessa della cassa integrazione. Alcuni ristoranti e bar hanno chiuso definitivamente. L’emergenza sanitaria ha messo sotto i riflettori una macchina che, forse, non funziona più molto bene.

Crescita economica e sviluppo non sono la stessa cosa

L’obiettivo numero 8 dell’Agenda 2030 è esplicitamente quello di garantire una crescita economica duratura. Ma cosa si intende per crescita economica? È un concetto economico che misura la produzione crescente di beni e servizi di una collettività. Si suppone che debba essere sempre in crescita per far fronte al continuo aumento dei bisogni della collettività stessa. Lo sviluppo è invece un miglioramento della qualità della vita, accompagnato da una migliore distribuzione del reddito. Inizialmente anche la nozione di sviluppo era caratterizzata da aspetti puramente economici, ma con il tempo si è allargata, arrivando a comprendere anche aspetti sociali ed economici, come ad esempio i diritti politici e quelli civili. 

Anche se sentiamo spesso la parola sviluppo solo in relazione ai paesi “in via di sviluppo”, anche per gli altri bisognerebbe iniziare a ragionare in termini di sviluppo e non di crescita. Richard Wilkinson e Kate Pickett hanno svolto una ricerca in tutti i principali Paesi sviluppati, pubblicata nel libro La misura dell’anima. Perché le diseguaglianze rendono le società più infelici (Milano, Feltrinelli, 2009). Wilkinson e Pickett hanno dimostrato che società più eque registrano prestazioni migliori in termini di speranza di vita, mobilità sociale e alfabetizzazione. Società diseguali, invece, registrano prestazioni peggiori in termini di malessere sociale, incidenza di malattie mentali, obesità.

Lo sviluppo è, quindi, un concetto più ampio della crescita economica. Se vogliamo davvero cambiare le cose per il meglio, non dobbiamo basare le scelte politiche su fattori unicamente economici. 

La dittatura del PIL

Il Prodotto Interno Lordo è l’indice su cui da decenni i Paesi, e le loro politiche, si basano per misurare il grado di benessere di un paese. Più il PIL è alto e più in quel Paese si vive bene. Ma è veramente così? 

Il PIL misura il valore totale dei beni e dei servizi prodotti in un anno. Dunque, non ci dice niente quindi sullo sviluppo, sulla prosperità o sulla sostenibilità. L’economista considerato l’inventore del PIL, Simon Kuzners, nel 1934 dichiarò al Senato statunitense che “il benessere di una nazione può difficilmente essere dedotto da una misurazione del reddito nazionale”. Robert Kennedy, politico statunitense e fratello di John Fitzgerald Kennedy, nel 1968, dichiarò all’Università del Kansas che il PIL “misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta”. Kennedy sottolineava il fatto che nel calderone dei beni e dei servizi finiscono anche i costi delle ambulanze o le pubblicità delle sigarette. Il valore cresce anche con la produzione di missili, testate nucleari o armamenti che la polizia usa per sedare le rivolte. 

Martha Nussbaum, filosofa e accademica statunitense, ragiona per assurdo: anche se volessimo misurare la qualità della vita solo in termini monetari, il Prodotto Interno Lordo non è comunque la scelta più consona. Sarebbe più efficace, ad esempio, misurare il reddito familiare medio. Inoltre, insiste Nussbaum, il PIL non tiene conto degli aspetti distribuitivi della ricchezza. In questo modo una nazione con un PIL molto alto potrebbe essere caratterizzata da enormi diseguaglianze. 

Dovremmo, quindi, iniziare a misurare non la produzione, ma il benessere, inteso come un insieme di risorse naturali, salute, istruzione, lavoro, equità, sicurezza economica e capitale umano, sociale e fisico.

Lavoro minorile

Per produrre di più con costi sempre più bassi ci si spinge a conseguenze impensabili: arrivare anche a sfruttare i bambini. Per lavoro minorile si intende un lavoro a cui sono sottoposti minorenni in condizioni di semi prigionia, che li priva di ogni forma di libertà e diritto allo studio, con gravi danni sullo sviluppo psico-fisico. Le ragioni le conosciamo benissimo: i minorenni hanno un costo di manodopera molto ridotto e non hanno bisogno di stipulare nessun tipo di contratto. Non è una novità l’elevato uso di minorenni in ambienti come quello della moda, per fabbricare prodotti da esportare in tutto il mondo. Secondo Save The Children sono 152 milioni i minori tra i 5 e i 17 anni vittime di sfruttamento (dati del 2019). Ancora una volta è l’Africa a riportare i dati peggiori: qui lavorano 72 milioni di minori. Come spiegavamo qualche articolo fa, i Paesi più poveri hanno una popolazione meno istruita. I bambini, spesso, non vanno a scuola per dover lavorare e, non avendo studiato, non hanno altro possibilità che continuare a fare lavori poco dignitosi. È un circolo vizioso difficile da rompere.  Seppur negli ultimi venti anni ci sono stati dei progressi, dice Save The Children, siamo ancora molto lontani dall’obiettivo dell’Agenda 2030: entro il 2025 dovremmo, infatti, porre fine al lavoro minorile in tutte le sue forme, ma se continuiamo così, tra quattro anni ci saranno ancora 121 milioni di minorenni sfruttati.

Per approfondire:

Ali per Zaki

L’iniziativa di Solidarietà promossa dal Comune di Vico Pisano

Patrick Zaki è uno studente dell’Università di Bologna e attivista egiziano nato il 16 giugno 1991 a Mansura, in Egitto.

In occasione delle elezioni presidenziali egiziane del 2018, Patrick Zaki è stato uno degli organizzatori della campagna elettorale di Khaled Ali, avvocato e attivista politico impegnato nella difesa dei diritti umani che successivamente ritirò la candidatura denunciando il clima di intimidazione e i numerosi arresti dei suoi collaboratori. Zaki ha fatto parte dell’associazione per la difesa dei diritti umani Egyptian Initiative for Personal Rights, con sede al Cairo. 

Prima della sua incarcerazione stava frequentando un master universitario in studi di genere all’Università di Bologna.

Il 7 febbraio 2020, nell’intento di tornare in Egitto per fare visita ai parenti, dopo l’atterraggio all’aeroporto del Cairo alle 4:00, è stato catturato dagli agenti dei servizi segreti. Per circa 24 ore non sono trapelate sue notizie né ai familiari né ai media. La notizia del suo arresto è stata divulgata successivamente dall’ Egyptian Initiative for Personal Rights (associazione umanitaria dove lavorava in qualità di ricercatore), il 9 febbraio.

I capi d’accusa formulati nel mandato d’arresto sono: minaccia alla sicurezza nazionale, incitamento alle proteste illegali, sovversione, diffusione di false notizie, propaganda per il terrorismo. Secondo i mezzi d’informazione governativi egiziani, Zaki sarebbe attivo all’estero per fare una tesi sull’omosessualità e per incitare contro lo stato egiziano.

Oggi, Zaki,  si trova ancora in carcere, e non si intravede una fine per le sofferenze di questo giovane ragazzo.

Ali per Zaki nasce a Vicopisano, un piccolo comune in provincia di Pisa. La commissione Pari Opportunità vuole lanciare un messaggio di solidarietà e coinvolge l’artista Daria Palotti. 

Le ali sono il simbolo della libertà. Una libertà che Daria, confrontandosi con questo tema, ricerca in modo assoluto, totalizzante, creando delle ali che richiamano con i loro colori ad un’esplosione di vita. Come se quest’esplosione potesse finalmente liberare Patrick.

Il passaggio alla fase successiva del progetto è rapido: chiunque dovrebbe poter avere la possibilità di contribuire, di disegnare delle ali per aiutare spiritualmente Zaki a fuggire dalla sua prigionia. E così, inaspettatamente, Comune dopo Comune, scuola dopo scuola, l’iniziativa cresce e raccoglie le adesioni delle Università di Pisa e di Bologna, e, infine, di Amnesty Italia. 

Oggi noi vogliamo raccontarvi come centinaia di persone, provenienti da paesi, città, regioni e nazioni diverse, si sono uniti per lanciare un messaggio forte, insieme: libertà per Patrick Zaki!